giovedì 15 agosto 2013
domenica 11 agosto 2013
FRANCESCANI DELL’IMMACOLATA: anch’io li conosco
di Alessandro Gnocchi
Bisogna riconoscerlo, a volte sono utili anche gli articoli di Massimo
Introvigne. Per quello che vale, questa testimonianza sui Francescani
dell’Immacolata non sarebbe stata scritta senza l’implicito invito
contenuto in una delle encicliche che l’avvocato sociologo pubblica
quasi quotidianamente sulla “Nuova Bussola”.
Pochi giorni fa, a proposito del commissariamento dell’istituto fondato
da padre Stefano Manelli, Introvigne si è lasciato sfuggire la
maldestra insinuazione che le vere cause di quanto avvenuto le
conoscerebbero solo lui e qualche altro iniziato alle segrete carte.Tutti, o quasi, gli altri commentatori della vicenda
avrebbero scritto a capocchia, senza sapere di che cosa si sta parlando,
senza essere illuminati come lui. «Conosco anche i loro problemi» ha scritto dei Francescani dopo la solita lisciata di pelo che precede la coltellata «non sono certo che si possa dire lo stesso per tutti coloro che hanno commentato l’ultima vicenda».
Per corroborare tanto zelo per la verità e la correttezza
dell’informazione, per dare una mano nel mettere al loro posto tutti
quei signori che osano scrivere a capocchia senza sapere ciò che
Introvigne invece sa, vorrei rendere una testimonianza e raccontare
qualche cosa su questi frati e dunque anche sulle suore che fanno parte
della famiglia.Niente di eclatante, si tratta di semplici fatti ai quali,
però, si possono solo opporre altri fatti e non un sibillino “lasciate
parlare me che conosco le segrete carte”. Scrivo una volta
tanto in prima persona, senza l’ausilio di Mario Palmaro, che comunque,
come usa dire oggi, ci legge in copia, perché le testimonianze vanno
rese e verbalizzate singolarmente. Questa breve racconto inizia dal
passato recentissimo. Domenica 4 agosto, mia figlia, che ha diciotto
anni e si chiama Chiara, è tornata da un mese trascorso come missionaria
in Nigeria con le suore francescane dell’Immacolata.La missione nigeriana, come dovrebbero sapere tutti coloro
che parlano di questo istituto e come Introvigne certamente sa, è a
rischio di martirio quotidiano. Lì, ci sono figli e figlie di
padre Manelli che ogni giorno rischiano la vita in nome di Gesù Cristo
e, proprio per questo, prospera una delle imprese spirituali più
fiorenti dell’istituto: quaranta aspiranti maschi e trenta aspiranti
femmine in un Paese a maggioranza musulmana, dove le sette protestanti
fanno di tutto per distruggere quanto costruiscono i cattolici, dove
imperversano le chiese più impensate, dove i pagani che consumano i loro
sacrifici umani poco lontano dai conventi lasciano i resti delle
vittime per le strade in onore dei loro demoni, dove nelle giornate dei
riti cannibali le donne non possono uscire di casa pena la morte. Nel
mondo di “Apocalypto” prima dell’arrivo degli spagnoli.Le suore non possono mai uscire da sole e, in certe occasioni, rischiano la vita solo a mostrarsi.
Eppure, come i frati, continuano a portare Cristo là dove non c’è e a
chi non lo conosce. Assieme ai frati, procurano battesimi,
l’amministrazione dei sacramenti, la celebrazione di Messe, strappano
letteralmente anime e corpi al demonio. Dopo ogni conversione tornano
quotidianamente dai nuovi cristiani per evitare che la loro fede si
intorpidisca e cada di nuovo preda delle false religioni e, quindi,
della disperazione. Appena scesa dall’aereo, alla sua prima ora di
missione, Chiara è stata portata al lebbrosario per pregare in ginocchio
il Rosario davanti al letto di una malata che stava morendo, perché le
anime vanno custodite fino in fondo e non basta riempire le pance.La preghiera è stato il filo d’oro che ha segnato il cammino di mia figlia per tutto il mese:
lo stesso che segna da anni la vita della missione perché è quello che
segna la vita delle suore e dei frati francescani dell’Immacolata. Dopo,
solo dopo, viene l’assistenza materiale, lì, nel mondo di “Apocalypto”
dove, nonostante tutto, le suore e i frati vestiti di azzurro sono
altrettante note di letizia. «Di notte» mi ha raccontato Chiara «mi
veniva da piangere per ciò che vedevo di giorno. Avevo visto l’inferno
mentre io mi sentivo in paradiso. Non è la povertà e non è la miseria a
far piangere, ma la disperazione di un mondo senza Cristo. Di giorno
sentivo le voci dei muezzin, di notte i tam tam dei riti pagani e ho
toccato con mano che il demonio esiste davvero, ho provato sulla mia
pelle che la religione vera è una sola ed è la nostra. Lo scudo più
potente contro la presenza del demonio era il canto gregoriano dei frati
e delle suore, il Rosario recitato continuamente, le veglie e le Messe
celebrate come piace al Signore».«Chiara, se vogliamo che la nostra missione diventi ancora più fiorente» ha detto una suora a mia figlia poco prima che partisse «bisogna
che qualcuna di noi muoia e offra la sua vita perché non c’è niente di
più fecondo del sangue offerto per Gesù. I frati sono già morti, ora
tocca a noi». Sono poveri, piccoli fatti, piccoli frutti sperduti
nell’Africa profonda che però mostrano di che pasta siano le radici
dell’albero piantato nel saldo terreno della fede cattolica da padre
Manelli nel 1970.L’impronta in quelle suore e in quei frati che accettano il martirio per far fiorire la vita cristiana è la sua.
Da anni, quest’uomo vive nella sofferenza come il suo padre spirituale
San Pio da Pietrelcina. Qualche tempo fa, quando i medici non sapevano
che cosa fare per guarirlo dal male che lo tormentava, un sacerdote che
lo conosce bene mi disse «I dottori stanno tentando di tutto, ma non
riescono a far niente perché non capiscono che quest’uomo sta offrendo
le sue sofferenze per il bene della Chiesa. Ha scelto di portare sul suo
corpo le piaghe del Corpo Mistico». Non serve teologizzare troppo.
Basta stare cinque minuti davanti a padre Stefano per capire quanto la
sofferenza gli sia intima, quanto la desideri pur temendola, e quanto ne
offra i benefici e le benedizioni che ne discendono.Due anni fa l’ho incontrato al santuario dello Zuccarello di Nembro, vicino a Bergamo, per la Messa in ricordo di sua mamma. Era seduto in sacrestia, piegato sulla sedia, in difficoltà anche solo a dar retta a chi lo salutava. «Come sta padre Stefano?». Ha allargato le braccio per quanto poteva e ha sussurrato «Si sta così, sulla croce».
Con Mario Palmaro avevo appena scritto un libro su padre Pio, ma solo
davanti a quel suo figlio spirituale ho finalmente provato un briciolo
di vera compassione per la sofferenza che avevo descritto indegnamente
con le parole.Tre mesi fa l’ho rivisto, poco prima che scoppiasse la bomba del commissariamento. Era inquieto, ma più per le sorti della Chiesa che per quelle della sua fondazione. «Ormai,
ci può salvare solo il trionfo del Cuore Immacolato di Maria. Siamo nel
tempo che padre Pio diceva delle “quattro T”: tutte tenebre». «E che cosa possiamo fare, padre?». «Bisogna prepararsi, pregare e continuare la battaglia. E poi» ha aggiunto con il suo sorriso un po’ da vecchio e un po’ da bambino «ci sono le “quattro T” della luce: tutti Francescani dell’Immacolata».Eravamo a Sassoferrato, nel seminario dell’ordine. Una
costruzione enorme svuotata di vocazioni dai frati minori conventuali e
riempita dai francescani dell’Immacolata. Un edificio in questi frati che salutano chiunque con lo splendido «Ave Maria»
vivono fianco a fianco con madonna povertá. Nelle loro case, la povertà
è quella vera, non è quella esibita all’obiettivo del fotografo e
neanche quella predicata agli altri. È praticata in proprio e,
letteralmente, la si respira appena si varca la soglia di un qualsiasi
loro convento. Non nelle chiese, perché lì deve essere tutto il più
splendido possibile per il Signore, come voleva il padre Francesco. Ma
nelle loro case può abitarci solo chi decide e accetta di essere
veramente povero.La rinuncia a tutto, ma proprio tutto, quanto il mondo può
offrire di appena confortevole, attanaglia alla gola: ti soffoca o ti
santifica. «Se avessi voluto curarmi le unghie e avere l’acqua calda tutti i giorni» ha spiegato una suora di ventidue anni a mia moglie «sarei stata a casa mia».
Mia figlia Chiara, in un mese di missione non si è mai guardata allo
specchio, ne aveva solo uno piccolissimo per controllare se si era presa
le pulci. L’unico specchio consentito alle suore francescane
dell’Immacolata è il quadro della Madonna. Chi cerca l’oleografia e il
pittoresco e pensa ai conventi del turismo spirituale che va di moda
oggi, eviti con cura le case e i conventi dei francescani
dell’Immacolata. Scambierebbe per incuria e abbandono la santa
indifferenza che questi frati e queste suore nutrono per le cose del
mondo.Non capirebbe come uomini e donne del ventunesimo secolo
possano vivere in mezzo a quello che un qualsiasi cristiano perbene
chiamerebbe squallore. Perché è questa la cifra degli ambienti
in cui i francescani dell’Immacolata vivono, pregano e si santificano.
Dopo aver guardato la luce che brilla negli occhi di uno di questi frati
o di una di queste suore, guardate i piedi e osservate come sono
ridotti. Se gli occhi sono quelli chi scorge il Paradiso, i piedi sono
quelli di chi sta piantato nella miseria del mondo e l’abbraccia. A me è
capitato qualche tempo fa con padre Alessandro Apollonio, il braccio
destro di padre Stefano. Dopo un’ora trascorsa a passeggiare
sull’asfalto discutendo di massimi sistemi, mi è caduto l’occhio sulle
unghie dei suoi piedi, completamente coperte dagli ematomi dovuti al
gelo sopportato d’inverno. Allora ho guardato le mie scarpe e mi sono un
pò vergognato. Ma, soprattutto, ho avuto compassione del mio sguardo,
che non ha certo la letizia di quello di padre Alessandro.Sono solo dei piccoli fatti, cose da niente che però, a chi
abbia buoni occhi e occhi buoni, dicono ben più di tanti trattati di
sociologia. E pure più di tante visite apostoliche condotte per
posta elettronica inviando questionari da riempire e ricevere stando
nel proprio ufficio invece che andare sul posto di persona. Se il
visitatore che ha dato il via libera al commissariamento, come dice il
nome del suo ufficio, avesse visitato le case dei francescani invece che
affidarsi alle formidabili meraviglie informatiche, forse si sarebbe
reso conto che il rancore di certi frati contro il loro fondatore non
regge l’amore filiale che circonda la figura di padre Stefano. «Tieni, finisci tu il caffè»
ha detto il padre al giovane frate che ci aveva portato qualcosa da
bere quando l’ho incontrato due mesi fa. E, come faceva mio padre con me
quando ero bambino, come facevo io con i miei figli quando erano
piccoli e come mi piacerebbe fare ancora adesso che la più piccina va in
missione in Nigeria, gli ha passato la tazzina dalla quale aveva bevuto
lui.Cosa dire d’altro? Che poi, quel giorno, padre Stefano si è
alzato e se ne è andato verso la sua cella tenendo in mano tutti i libri
che gli avevo portato in regalo. Non lo avevo mai visto così
grande, così imponente. Forse sapeva già che sarebbe venuto il momento
della prova.
Fonte: http://www.corrispondenzaromana.it/francescani-dellimmacolata-anchio-li-conosco/
sabato 10 agosto 2013
Lex dubia non obligat
di Roberto de Mattei
Il “caso” dei Francescani dell’Immacolata ripropone una questione di ordine canonico, morale e spirituale, spesso affiorata e talvolta “esplosa” negli anni del post-concilio: il problema dell’obbedienza ad una legge ingiusta. Una legge può essere ingiusta non solo quando viola la legge divina e naturale, ma anche quando viola una legge ecclesiastica di portata superiore. È questo il caso del Decreto dell’11 luglio 2013 con cui la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata stabilisce il commissariamento dei Francescani dell’Immacolata.La lesione del diritto non sta nel commissariamento, ma in quella parte del Decreto che pretende obbligare i Francescani dell’Immacolata a rinunciare alla Messa secondo il Rito Romano antico. Esiste infatti, oltre alla Bolla Quo primum di san Pio V (1570), il motu proprio di Benedetto XVI Summorum pontificum (2007), ossia una legge universale della Chiesa, che concede ad ogni sacerdote il diritto di «celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa».L’art. 2 del Motu Proprio specifica che non occorre alcun permesso né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario, per le Messe celebrate sine populo.L’art. 3 aggiunge che non solo i singoli sacerdoti, ma «le comunità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, di diritto sia pontificio sia diocesano, sia che nella celebrazione conventuale o “comunitaria” nei propri oratori possono esercitare questo diritto». Nel caso che una singola comunità o un intero Istituto o Società volesse «compiere tali celebrazioni spesso o abitualmente o permanentemente, la cosa deve essere decisa dai Superiori maggiori a norma del diritto e secondo le leggi e gli statuti particolari». Non c’è bisogno, in questo caso, di risalire ai princìpi della legge divina e naturale, basta il diritto canonico. Un eminente giurista come Pedro Lombardia (1930-1986) ricorda come il canone 135, paragrafo 2, del nuovo Diritto Canonico sancisce il principio della legalità del legiferare, nel senso che «la potestà legislativa è da esercitarsi nel modo stabilito dal diritto», specialmente dai canoni 7-22, che costituiscono il titolo dedicato dal Codice alle Leggi ecclesiastiche (P. Lombardia, Lezioni di diritto canonico, Giuffré, Milano 1986, p. 206).Il Codice ricorda che leggi ecclesiastiche universali sono quelle «promulgate con l’edizione nella gazzetta ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis» (can. 8); che ad esse «sono tenuti dovunque tutti coloro per i quali sono state date» (can. 12 – §1); precisa che «le leggi che stabiliscono una pena, o che restringono il libero esercizio dei diritti, o che contengono un’eccezione alla legge, sono sottoposte a interpretazione stretta» (can. 18); stabilisce che «la legge posteriore abroga la precedente o deroga alla medesima, se lo indica espressamente, o è direttamente contraria a quella, oppure riordina integralmente tutta quanta la materia della legge precedente »(can. 20); afferma che «nel dubbio la revoca della legge preesistente non si presume, ma le leggi posteriori devono essere ricondotte alle precedenti e con queste conciliate, per quanto è possibile» (can. 21).L’art. 135 stabilisce infine il principio fondamentale della gerarchia delle norme, in virtù del quale «da parte del legislatore inferiore non può essere data validamente una legge contraria al diritto superiore». Neanche un Papa può abrogare un atto di un altro Papa, se non con la dovuta forma. La regola incontestabile, di ordine giuridico e morale, è che prevale il diritto derivante da un ordine superiore, che riguarda una materia di maggiore importanza e più universale, e che possiede un titolo più evidente (Regis Jolivet, Trattato di filosofia. Morale, vol. I, Morcelliana, Brescia 1959, pp. 171-172).Secondo il canone 14, inoltre, la norma canonica, per essere obbligatoria, non deve essere suscettibile di dubbio di diritto (dubium iuris), ma deve essere certa. Quando manca la certezza del diritto, vige l’assioma: lex dubia non obligat. Quando ci si trova di fronte ad un dubbio, la gloria di Dio e la salvezza delle anime prevalgono sulle concrete conseguenze a cui può portare l’atto, sul piano personale. Il nuovo Codice di Diritto Canonico ricorda infatti, nel suo ultimo canone, che nella Chiesa, sempre deve essere “suprema lex” la “salus animarum” (can. 1752). Lo aveva già insegnato S. Tommaso d’Aquino: «lo scopo del diritto canonico tende alla pace della chiesa e alla salvezza delle anime» (Quaestiones quodlibetales, 12, q. 16, a. 2) e lo ripetono tutti i grandi canonisti.Nel discorso sulla “salus animarum” come principio dell’ordinamento canonico, tenuto il 6 aprile 2000, il cardinale Julián Herranz, Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, ha ribadito come questo è il supremo principio ordinatore della legislazione canonica. Tutto ciò presuppone una riflessione articolata, che è assente dal dibattito, perché spesso si dimentica il fondamento morale e metafisico del diritto.Oggi prevale una concezione meramente legalista e formalista, che tende a ridurre il diritto a un mero strumento nelle mani di chi ha il potere (cfr. Don Arturo Cattaneo, Fondamenti ecclesiologici del Diritto canonico, Marcianum Press, Venezia 2011). Secondo il positivismo giuridico penetrato all’interno della Chiesa è giusto ciò che l’autorità promulga. In realtà lo Ius divinum è a fondamento di ogni manifestazione del diritto e presuppone la precedenza dello jus rispetto alla lex. Il positivismo giuridico inverte i termini e sostituisce l’esercizio della lex alla legittimità dello jus. Nella legge si vede solo la volontà del governante, e non il riflesso della legge divina, per la quale Dio è il fondamento di tutti i diritti. Egli è il Diritto vivente ed eterno, principio assoluto di tutti i diritti (cfr. Ius divinum, a cura di Juan Ignacio Arrieta, Marcianum Press, Venezia 2010).È per questo che, in caso di conflitto tra la legge umana e quella divina, «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At. V, 29). L’obbedienza è dovuta ai superiori perché rappresentano l’autorità stessa di Dio ed essi la rappresentano in quanto custodiscono e applicano la legge divina. San Tommaso afferma che è meglio affrontare l’immediata scomunica della Chiesa, ed esulare in terre lontane ‒ dove il braccio secolare non arriva ‒ piuttosto che obbedire ad un ordine ingiusto: «ille debet potius excommunicatione, sustinere (…) vel in alias regiones remotas fugere» (Summa Theologiae, Suppl., q. 45, a. 4, ob. 3).L’obbedienza non è solo un precetto formale che ci spinge a sottometterci alle autorità umane: è prima di tutto una virtù che incammina verso la perfezione. Abbraccia in maniera perfetta l’obbedienza non chi ubbidisce per interesse, timore servile, o affezione umana, ma chi sceglie la vera obbedienza, che è l’unione della volontà umana con la Volontà divina. Per amore di Dio dobbiamo essere pronti a quegli atti di suprema obbedienza alla sua legge e alla sua Volontà che ci sciolgono dai legami di una falsa obbedienza, che rischia di farci perdere la fede. Purtroppo oggi vige un malinteso senso dell’obbedienza, confinante talvolta con il servilismo, in cui il timore del’autorità umana prevale sull’affermazione della verità divina.La resistenza agli ordini illegittimi è talvolta un dovere, verso Dio e verso il nostro prossimo, che ha bisogno di gesti di esemplare densità metafisica e morale. I Francescani dell’Immacolata hanno ricevuto ed accolto da Benedetto XVI il bene straordinario della Messa tradizionale, impropriamente detta “tridentina”, che oggi migliaia di sacerdoti celebrano legittimamente un tutto il modo. Non c’è modo migliore di esprimere la loro riconoscenza a Benedetto XVI per il bene ricevuto e di manifestare allo stesso tempo il proprio sentimento di protesta verso un’ingiustizia subita, che di continuare a celebrare in tranquilla coscienza il Santo Sacrificio della Messa secondo il Rito romano antico. Nessuna legge contraria li obbliga in coscienza. Forse pochi lo faranno, ma il cedimento per evitare mali maggiori, non servirà ad allontanare la tempesta che infuria sul loro istituto e sulla Chiesa.
Fonte: http://www.corrispondenzaromana.it/lex-dubia-non-obligat/
mercoledì 7 agosto 2013
Quella sberla ai Francescani nella chiesa di Francesco
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
E così, l’istituto
dei Francescani dell’Immacolata è stato commissariato e affidato chiavi
in mano a un frate cappuccino. Padre Fidenzio Volpi, così si chiama il
Commissario apostolico, si è presentato con una lettera che, a parte il
tradizionale “Pace e bene”, sembra ricalcata su quelle dei burocrati di
Ceasusescu: sterminata citazione del capo seguita da minacciosa
conclusione.
Dal combinato disposto della missiva del commissario con il relativo decreto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata, si evince che i frati Francescani dell’Immacolata, con il loro pallino per la Messa in rito antico e il Breviario tradizionale l’hanno combinata proprio grossa: hanno commesso il peccato di lesa “ecclesialità”. Hanno portato nocumento a quel brumoso concetto, caro a papa Francesco, nel quale tra poco verranno magari inseriti gli abbondanti frutti spirituali del ramadan musulmano esaltati nel blitz di Lampedusa, ma non quelli della Messa in latino.
“Il Santo Padre Francesco” recita il decreto della Congregazione “ha disposto che ogni religioso della Congregazione dei Frati Francescani dell’Immacolata è tenuto a celebrare la liturgia secondo il rito ordinario e che, eventualmente, l’uso della forma straordinaria (Vetus Ordo) dovrà essere esplicitamente autorizzata dalle competenti autorità, per ogni religioso e/o comunità che ne farà richiesta”.
Qui sta la prima, grande sorpresa di questo provvedimento: nell’interpretazione unanime dei mass media, Josè Mario Bergoglio è un papa fortemente orientato alla misericordia, alla tenerezza, all’attenzione al punto di vista altrui, al dialogo. In poche parole, una versione 2.0 del “papa buono” di roncalliana memoria.
Ora, leggendo i due documenti che si abbattono con pugno di ferro sui Francescani dell’Immacolata, di questa bonomia, di questa logica della tolleranza davvero non ve n’è traccia.
Come il Texas del visionario Cormac McCarthy, questa Chiesa non è un paese per vecchi. Quando la realtà si confonde con la fantasia psichedelica più sfrenata, per fare chiarezza bisogna affidarsi a certe pagine della letteratura. Se quella dei vescovi che si dimenano in mondovisione agli ordini di un Fiorello da strapazzo al rito di “Flashmob” è la Chiesa giovane di Francesco tanto amata dal mondo, se il modello subito scovato dai media per la nuova frontiera degli eventi ecclesiali che tanto si confanno al papa che viene dalla fine del mondo è Woodstock, risulta difficile trovare un posto per i poveri Francescani dell’Immacolata. Loro che si fanno fotografare tutti insieme, gli uomini da un parte e le donne dall’altra con tanto di saio e la statua della Madonna in primo piano.
Loro che pregano, digiunano, si mortificano, celebrano e celebrano la Messa senza straziare il povero Corpo di Cristo. Loro che praticano e insegnano un morale improntata al più vivo rigore. Loro che vanno in missione a portare Cristo prima della pasta al pomodoro e dell’aspirina. Loro che sono poveri e umili senza ostentazioni e senza mettersi in favore di telecamera e di obiettivo fotografico come va di moda sotto il nuovo pontificato.
Questi provvedimenti draconiani disegnano una Chiesa che giudica vecchi i Francescani dell’Immacolata, pericolosi deviazionisti dalla rotta (per la verità piuttosto incerta) dell’ecclesialità contemporanea. Vecchi questi religiosi? Loro che sono nati solo nel 1970, attraverso un percorso di recupero della originaria spiritualità di Francesco d’Assisi, tutta incentrata su Maria, sui sacramenti, sulla preghiera e la mortificazione. Pericolosi per la cattolicità i Francescani dell’Immacolata? Questi fraticelli miti e queste suore oranti, che si rifanno alla gigantesca figura di Padre Massimiliano Kolbe, il francescano conventuale che aveva in testa il sogno di avvolgere il mondo in un mare di fogli di stampa cattolica. Si parla di quel Padre Kolbe che morì in un lager nazista offrendo sé stesso al posto di un detenuto padre di famiglia.
L’agonia di Massimiliano durò due settimane senza acqua né cibo, mentre la maggioranza dei condannati era morta di stenti. Sopravvissero in quattro, tra cui Kolbe, e continuavano a pregare e cantare inni a Maria. Le guardie delle SS addette alla custodia non ne poterono più, e finirono il prete cattolico con un’iniezione di acido fenico. Era 14 agosto 1941, vigilia della Festa dell’Assunzione di Maria. All’ufficiale medico nazista che gli fece l’iniezione mortale nel braccio, Padre Kolbe disse: «Lei non ha capito nulla della vita…» e mentre l’ufficiale lo guardava con fare interrogativo, soggiunse: «…l’odio non serve a niente… Solo l’amore crea!». Le sue ultime parole, porgendo il braccio, furono: «Ave Maria». Le stesse parole con cui i Francescani dell’Immacolata oggi salutano nei cinque continenti ogni persona che incontrano.
Qual è dunque la ratio di questi provvedimenti che decapitano i Francescani del loro fondatore? Si commissaria un ordine religioso che conquista vocazioni tra i ragazzi e ragazze che amano impegnarsi in qualcosa di serio e di grande. E quindi di difficile. Evidentemente, c’è chi ritiene che questa Chiesa non sia un paese per loro. Almeno fino a quando continueranno, o purtroppo avranno continuato, a essere così e a fare della tradizione e della liturgia tradizionale l’alimento da cui trarre forza. Ecco il nodo, ecco forse la pietra dello scandalo: da anni i Francescani dell’Immacolata – in un regime per altro bi ritualista – hanno recuperato la celebrazione e la teologia della messa di San Pio V, della messa di sempre.
Giunti a questo indizio, a questo elemento probatorio a carico dei religiosi dal saio azzurrino, si può concludere che c’è della logica in quanto sta accadendo. E qualsiasi logica che si rispetti non può essere inclusiva. Non fino al punto di tenere insieme il carnevale di Rio e la Messa gregoriana. L’et et che troppi cattolici hanno stiracchiato per ogni dove rendendolo liso e pieno di buchi si è rotto proprio dove ha incontrato dei frati che hanno mostrato che il genio di San Francesco non è stato rivoluzionario ma tradizionale. E che una famiglia francescana, numeri alla mano, torna a fiorire quando riprende a lottare con il mondo invece che a farselo amico.
Perché il cattolicesimo, che ha al vertice della sua teologia San Tommaso d’Aquino, non può essere ridotto a una gigantesca poltiglia irrazionale, a un vago sentimento pompato dalla sapiente regia dei mass media. La trasmissione della fede avviene in una drammatica e insieme fantastica lotta fra l’anima di ogni singolo individuo e il suo Creatore. Questo appuntamento decisivo può forse, nella migliore delle ipotesi, essere propiziato da adunate oceaniche. Ma nessuno torna da un evento massivo e massificante con la conversione in tasca: per proseguire su quel cammino, ci vuole la grazia sacramentale.
Qui si inserisce la prima osservazione che l’incredibile vicenda del commissariamento dei Francescani dell’Immacolata ci suggerisce: è in atto da decenni, in una fetta preponderante della teologia sedicente cattolica, un’operazione essenzialmente luterana, di de-sacramentalizzazione della Chiesa. Si parla di Cristo, si parla del Vangelo, si parla delle beatitudini, si parla dei poveri, ma sganciandosi progressivamente, in modo prima lento e poi veloce ed inesorabile, dalla centralità assoluta dei sacramenti. A cominciare dalla Messa, passando poi per la confessione, la cresima, il battesimo.
Quale parroco, ormai, ha fretta di battezzare un bambino? SI fa tutto con una calma olimpica, perché tanto, ormai, in Paradiso ci si va comunque. Karl Rhaner e la sua teoria dei “cristiani anonimi” hanno vinto la partita, e reclamano il loro trofeo: una Chiesa nella quale i sacramenti non sono più necessari. Basta sostituirli con una serie di gesti, scatenando lo spirito creativo del Popolo di Dio e di quello che resta dei suoi pastori. Si passa così dal karaoke al rosario, o dal Flashmob alla confessione, con la stessa disinvoltura con cui Fantozzi passava dalla cucina al salotto, fasciato nei suoi indimenticabili mutandoni e canottiera. Così ci si fa belli agli occhi del mondo, ci si mostra moderni e aperturisti, liquidatori di turiboli incensanti, preti rigidamente avvolti in splendide pianete, magari addirittura girati verso l’altare. Ora, i Francescani dell’Immacolata sono indiscutibilmente del tutto estranei a una simile ecclesiologia anti-sacramentale. E probabilmente è per questo che qualcuno vuole toglierli di mezzo.
C’è una seconda, amara constatazione suggerita da questa vicenda: fu Joseph Ratzinger, ex Papa ed ex cardinale vivente, a inventare la categoria delle “minoranze creative”. Tradotto per il volgo, Benedetto XVI pensava a gruppi di cattolici tosti che, pur partendo dalla consapevolezza di essere pochi e magari nemmeno buoni, si battessero in modo intelligente come truppe scelte dentro il ventre di un mondo secolarizzato e ostile. Gente, insomma, controcorrente e per nulla prona al conformismo e al pensiero unico. Bene: i Francescani dell’Immacolata sono un esempio formidabile di questa categoria di credenti. Chi li perseguita deve sapere che sta combattendo contro le “minoranze creative” di cui parlava Ratzinger.
Terza e conclusiva considerazione: il commmissariamento dei Francescani rivela il permanere, che dura ormai da cinquant’anni, di una sorta di “degasperismo psicologico” nel modus operandi delle gerarchie cattoliche. Il politico trentino definì una volta la democrazia cristiana “un partito di centro che guarda a sinistra”. La Chiesa post conciliare ha assunto in molti dei suoi uomini esattamente questo schema mentale. Per questi prelati, o teologi, o parroci di periferia, il pericolo viene sempre e soltanto da destra.
Le migliaia di suore americane che professano e praticano tesi palesemente non cattoliche alla fine se la cavano con un buffetto e con parole piene di rispetto e di comprensione; i Francescani dell’Immacolata finiscono commissariati. Si potrebbero fare centinaia di esempi di questo genere, scelte che in pochi lustri hanno lentamente trasportato il baricentro dell’ecclesiologia ufficiale a sinistra. Prova ne sia, ad esempio, il silenzio del mondo cattolico ufficiale di fronte all’approvazione imminente di una legge liberticida come quella sulla cosiddetta omofobia. La regola è sempre la stessa: ci si allinea con il mondo nel combattere ciò che appartiene più o meno a un pensiero tradizionale, si tace o addirittura si applaude agli slogan del luogocomunismo progressista. Per riprendere il titolo di un lucido pamphlet dedicato alla Dc dallo storico Roberto de Mattei, è proprio questo il “centro che ci portò a sinistra”.
Ora, a fronte di qualunque sia la decisione dei Francescani dell’Immacolata circa l’intimazione di non celebrare più la Messa in rito gregoriano dal 12 agosto, rimane l’iniquità della sanzione. E rimane la libertà della coscienza di non soggiacere a un ordine palesemente ingiusto. Se la Congregazione vaticana ritiene che il fondatore abbia imposto con la forza l’adozione del rito antico, i suoi frati dimostrino che invece l’hanno seguito in coscienza e quindi continueranno a fare ciò che nessuna legge della Chiesa non proibisce a nessun sacerdote.
Impugnare un procedimento ingiusto e resistervi in piena coscienza è quanto di più terribile possa temere chi esercita un potere iniquo. C’è qualcosa di misteriosamente e tremendamente metafisico nel singolo individuo che si presenta davanti al superiore per dichiararlo ingiusto: è la dichiarazione che non agisce come esigerebbe il suo essere, che è qualcosa di meno, di non rispettabile. Per questo i totalitarismi comunisti esigevano che le vittime sottoscrivessero la propria condanna. Perché, in definitiva, la legittimazione non veniva dalla propria forza e dalla propria prepotenza, ma dalla debolezza e dall’arrendevolezza altrui.
Se l’anomalia dei Francescani dell’Immacolata verrà tolta di mezzo senza che le vittime di un provvedimento iniquo abbiano in qualche modo resistito, sarà compiuto, prima di tutto, il male della Chiesa. Perché si consentirà a chi occupa le posizioni di potere di essere sempre un meno di ciò che dovrebbero essere. Anche se tutto questo si nasconde dietro l’immagine mediatica di un pontificato tenero e misericordioso. La Chiesa non è un’istituzione da far cadere, ma da amare e curare. Anche con la decisione e la forza.
Fonte: http://www.corrispondenzaromana.it/notizie-dalla-rete/quella-sberla-ai-francescani-nella-chiesa-di-francesco-appello/
Dal combinato disposto della missiva del commissario con il relativo decreto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata, si evince che i frati Francescani dell’Immacolata, con il loro pallino per la Messa in rito antico e il Breviario tradizionale l’hanno combinata proprio grossa: hanno commesso il peccato di lesa “ecclesialità”. Hanno portato nocumento a quel brumoso concetto, caro a papa Francesco, nel quale tra poco verranno magari inseriti gli abbondanti frutti spirituali del ramadan musulmano esaltati nel blitz di Lampedusa, ma non quelli della Messa in latino.
“Il Santo Padre Francesco” recita il decreto della Congregazione “ha disposto che ogni religioso della Congregazione dei Frati Francescani dell’Immacolata è tenuto a celebrare la liturgia secondo il rito ordinario e che, eventualmente, l’uso della forma straordinaria (Vetus Ordo) dovrà essere esplicitamente autorizzata dalle competenti autorità, per ogni religioso e/o comunità che ne farà richiesta”.
Qui sta la prima, grande sorpresa di questo provvedimento: nell’interpretazione unanime dei mass media, Josè Mario Bergoglio è un papa fortemente orientato alla misericordia, alla tenerezza, all’attenzione al punto di vista altrui, al dialogo. In poche parole, una versione 2.0 del “papa buono” di roncalliana memoria.
Ora, leggendo i due documenti che si abbattono con pugno di ferro sui Francescani dell’Immacolata, di questa bonomia, di questa logica della tolleranza davvero non ve n’è traccia.
Come il Texas del visionario Cormac McCarthy, questa Chiesa non è un paese per vecchi. Quando la realtà si confonde con la fantasia psichedelica più sfrenata, per fare chiarezza bisogna affidarsi a certe pagine della letteratura. Se quella dei vescovi che si dimenano in mondovisione agli ordini di un Fiorello da strapazzo al rito di “Flashmob” è la Chiesa giovane di Francesco tanto amata dal mondo, se il modello subito scovato dai media per la nuova frontiera degli eventi ecclesiali che tanto si confanno al papa che viene dalla fine del mondo è Woodstock, risulta difficile trovare un posto per i poveri Francescani dell’Immacolata. Loro che si fanno fotografare tutti insieme, gli uomini da un parte e le donne dall’altra con tanto di saio e la statua della Madonna in primo piano.
Loro che pregano, digiunano, si mortificano, celebrano e celebrano la Messa senza straziare il povero Corpo di Cristo. Loro che praticano e insegnano un morale improntata al più vivo rigore. Loro che vanno in missione a portare Cristo prima della pasta al pomodoro e dell’aspirina. Loro che sono poveri e umili senza ostentazioni e senza mettersi in favore di telecamera e di obiettivo fotografico come va di moda sotto il nuovo pontificato.
Questi provvedimenti draconiani disegnano una Chiesa che giudica vecchi i Francescani dell’Immacolata, pericolosi deviazionisti dalla rotta (per la verità piuttosto incerta) dell’ecclesialità contemporanea. Vecchi questi religiosi? Loro che sono nati solo nel 1970, attraverso un percorso di recupero della originaria spiritualità di Francesco d’Assisi, tutta incentrata su Maria, sui sacramenti, sulla preghiera e la mortificazione. Pericolosi per la cattolicità i Francescani dell’Immacolata? Questi fraticelli miti e queste suore oranti, che si rifanno alla gigantesca figura di Padre Massimiliano Kolbe, il francescano conventuale che aveva in testa il sogno di avvolgere il mondo in un mare di fogli di stampa cattolica. Si parla di quel Padre Kolbe che morì in un lager nazista offrendo sé stesso al posto di un detenuto padre di famiglia.
L’agonia di Massimiliano durò due settimane senza acqua né cibo, mentre la maggioranza dei condannati era morta di stenti. Sopravvissero in quattro, tra cui Kolbe, e continuavano a pregare e cantare inni a Maria. Le guardie delle SS addette alla custodia non ne poterono più, e finirono il prete cattolico con un’iniezione di acido fenico. Era 14 agosto 1941, vigilia della Festa dell’Assunzione di Maria. All’ufficiale medico nazista che gli fece l’iniezione mortale nel braccio, Padre Kolbe disse: «Lei non ha capito nulla della vita…» e mentre l’ufficiale lo guardava con fare interrogativo, soggiunse: «…l’odio non serve a niente… Solo l’amore crea!». Le sue ultime parole, porgendo il braccio, furono: «Ave Maria». Le stesse parole con cui i Francescani dell’Immacolata oggi salutano nei cinque continenti ogni persona che incontrano.
Qual è dunque la ratio di questi provvedimenti che decapitano i Francescani del loro fondatore? Si commissaria un ordine religioso che conquista vocazioni tra i ragazzi e ragazze che amano impegnarsi in qualcosa di serio e di grande. E quindi di difficile. Evidentemente, c’è chi ritiene che questa Chiesa non sia un paese per loro. Almeno fino a quando continueranno, o purtroppo avranno continuato, a essere così e a fare della tradizione e della liturgia tradizionale l’alimento da cui trarre forza. Ecco il nodo, ecco forse la pietra dello scandalo: da anni i Francescani dell’Immacolata – in un regime per altro bi ritualista – hanno recuperato la celebrazione e la teologia della messa di San Pio V, della messa di sempre.
Giunti a questo indizio, a questo elemento probatorio a carico dei religiosi dal saio azzurrino, si può concludere che c’è della logica in quanto sta accadendo. E qualsiasi logica che si rispetti non può essere inclusiva. Non fino al punto di tenere insieme il carnevale di Rio e la Messa gregoriana. L’et et che troppi cattolici hanno stiracchiato per ogni dove rendendolo liso e pieno di buchi si è rotto proprio dove ha incontrato dei frati che hanno mostrato che il genio di San Francesco non è stato rivoluzionario ma tradizionale. E che una famiglia francescana, numeri alla mano, torna a fiorire quando riprende a lottare con il mondo invece che a farselo amico.
Perché il cattolicesimo, che ha al vertice della sua teologia San Tommaso d’Aquino, non può essere ridotto a una gigantesca poltiglia irrazionale, a un vago sentimento pompato dalla sapiente regia dei mass media. La trasmissione della fede avviene in una drammatica e insieme fantastica lotta fra l’anima di ogni singolo individuo e il suo Creatore. Questo appuntamento decisivo può forse, nella migliore delle ipotesi, essere propiziato da adunate oceaniche. Ma nessuno torna da un evento massivo e massificante con la conversione in tasca: per proseguire su quel cammino, ci vuole la grazia sacramentale.
Qui si inserisce la prima osservazione che l’incredibile vicenda del commissariamento dei Francescani dell’Immacolata ci suggerisce: è in atto da decenni, in una fetta preponderante della teologia sedicente cattolica, un’operazione essenzialmente luterana, di de-sacramentalizzazione della Chiesa. Si parla di Cristo, si parla del Vangelo, si parla delle beatitudini, si parla dei poveri, ma sganciandosi progressivamente, in modo prima lento e poi veloce ed inesorabile, dalla centralità assoluta dei sacramenti. A cominciare dalla Messa, passando poi per la confessione, la cresima, il battesimo.
Quale parroco, ormai, ha fretta di battezzare un bambino? SI fa tutto con una calma olimpica, perché tanto, ormai, in Paradiso ci si va comunque. Karl Rhaner e la sua teoria dei “cristiani anonimi” hanno vinto la partita, e reclamano il loro trofeo: una Chiesa nella quale i sacramenti non sono più necessari. Basta sostituirli con una serie di gesti, scatenando lo spirito creativo del Popolo di Dio e di quello che resta dei suoi pastori. Si passa così dal karaoke al rosario, o dal Flashmob alla confessione, con la stessa disinvoltura con cui Fantozzi passava dalla cucina al salotto, fasciato nei suoi indimenticabili mutandoni e canottiera. Così ci si fa belli agli occhi del mondo, ci si mostra moderni e aperturisti, liquidatori di turiboli incensanti, preti rigidamente avvolti in splendide pianete, magari addirittura girati verso l’altare. Ora, i Francescani dell’Immacolata sono indiscutibilmente del tutto estranei a una simile ecclesiologia anti-sacramentale. E probabilmente è per questo che qualcuno vuole toglierli di mezzo.
C’è una seconda, amara constatazione suggerita da questa vicenda: fu Joseph Ratzinger, ex Papa ed ex cardinale vivente, a inventare la categoria delle “minoranze creative”. Tradotto per il volgo, Benedetto XVI pensava a gruppi di cattolici tosti che, pur partendo dalla consapevolezza di essere pochi e magari nemmeno buoni, si battessero in modo intelligente come truppe scelte dentro il ventre di un mondo secolarizzato e ostile. Gente, insomma, controcorrente e per nulla prona al conformismo e al pensiero unico. Bene: i Francescani dell’Immacolata sono un esempio formidabile di questa categoria di credenti. Chi li perseguita deve sapere che sta combattendo contro le “minoranze creative” di cui parlava Ratzinger.
Terza e conclusiva considerazione: il commmissariamento dei Francescani rivela il permanere, che dura ormai da cinquant’anni, di una sorta di “degasperismo psicologico” nel modus operandi delle gerarchie cattoliche. Il politico trentino definì una volta la democrazia cristiana “un partito di centro che guarda a sinistra”. La Chiesa post conciliare ha assunto in molti dei suoi uomini esattamente questo schema mentale. Per questi prelati, o teologi, o parroci di periferia, il pericolo viene sempre e soltanto da destra.
Le migliaia di suore americane che professano e praticano tesi palesemente non cattoliche alla fine se la cavano con un buffetto e con parole piene di rispetto e di comprensione; i Francescani dell’Immacolata finiscono commissariati. Si potrebbero fare centinaia di esempi di questo genere, scelte che in pochi lustri hanno lentamente trasportato il baricentro dell’ecclesiologia ufficiale a sinistra. Prova ne sia, ad esempio, il silenzio del mondo cattolico ufficiale di fronte all’approvazione imminente di una legge liberticida come quella sulla cosiddetta omofobia. La regola è sempre la stessa: ci si allinea con il mondo nel combattere ciò che appartiene più o meno a un pensiero tradizionale, si tace o addirittura si applaude agli slogan del luogocomunismo progressista. Per riprendere il titolo di un lucido pamphlet dedicato alla Dc dallo storico Roberto de Mattei, è proprio questo il “centro che ci portò a sinistra”.
Ora, a fronte di qualunque sia la decisione dei Francescani dell’Immacolata circa l’intimazione di non celebrare più la Messa in rito gregoriano dal 12 agosto, rimane l’iniquità della sanzione. E rimane la libertà della coscienza di non soggiacere a un ordine palesemente ingiusto. Se la Congregazione vaticana ritiene che il fondatore abbia imposto con la forza l’adozione del rito antico, i suoi frati dimostrino che invece l’hanno seguito in coscienza e quindi continueranno a fare ciò che nessuna legge della Chiesa non proibisce a nessun sacerdote.
Impugnare un procedimento ingiusto e resistervi in piena coscienza è quanto di più terribile possa temere chi esercita un potere iniquo. C’è qualcosa di misteriosamente e tremendamente metafisico nel singolo individuo che si presenta davanti al superiore per dichiararlo ingiusto: è la dichiarazione che non agisce come esigerebbe il suo essere, che è qualcosa di meno, di non rispettabile. Per questo i totalitarismi comunisti esigevano che le vittime sottoscrivessero la propria condanna. Perché, in definitiva, la legittimazione non veniva dalla propria forza e dalla propria prepotenza, ma dalla debolezza e dall’arrendevolezza altrui.
Se l’anomalia dei Francescani dell’Immacolata verrà tolta di mezzo senza che le vittime di un provvedimento iniquo abbiano in qualche modo resistito, sarà compiuto, prima di tutto, il male della Chiesa. Perché si consentirà a chi occupa le posizioni di potere di essere sempre un meno di ciò che dovrebbero essere. Anche se tutto questo si nasconde dietro l’immagine mediatica di un pontificato tenero e misericordioso. La Chiesa non è un’istituzione da far cadere, ma da amare e curare. Anche con la decisione e la forza.
Fonte: http://www.corrispondenzaromana.it/notizie-dalla-rete/quella-sberla-ai-francescani-nella-chiesa-di-francesco-appello/
martedì 6 agosto 2013
Vaticano II. Un dibattito aperto di don Jean-Michel Gleize
di Cristina Siccardi
Ignorare i problemi, non significa risolverli; rimuoverli significa dare ad essi la possibilità di svolgere la loro opera corrosiva e distruttiva. Il Concilio Vaticano II è un problema, la cui risoluzione continua ad essere posticipata, mentre la secolarizzazione ha trovato sempre più terreno fertile, in ogni ambiente, sia laico che ecclesiastico.Lo spiega un chiaro e solido saggio di don Jean-Michel Gleize, Vaticano II. Un dibattito aperto. Questioni disputate sul XXI Concilio Ecumenico (Editrice Ichthys, 2013, pp. 225, € 20.00). L’autore, che dal 2009 al 2011 ha preso parte ai colloqui dottrinali con la Santa Sede richiesti alla Fraternità Sacerdotale San Pio X da Benedetto XVI, nel suo studio affronta tre grandi tematiche e la loro indivisibile correlazione: la Tradizione, il Magistero, la Fede. La seconda parte è strutturata in forma di undici quaestiones disputatae, secondo la metodologia classica della Scolastica. Ciascuna questione si compone a sua volta di tre parti: l’elenco delle obiezioni; il principio di base della risposta; le risposte alle obiezioni.Testi come Lumen gentium, dove viene presentata la Chiesa come «popolo di Dio», Nostra aetate sulle religioni non cristiane, Unitatis redintegratio sull’ecumenismo e Dignitatis humanae sulla libertà religiosa «conducono effettivamente e con ragione a domandarsi, come dice il cardinale Ratzinger, “se la Chiesa di oggi è realmente la stessa di ieri, o se l’hanno cambiata con qualcos’altro senza dirlo alla gente”» (p. 7). A tutti sono evidenti i grandi cambiamenti (usi e costumi) avvenuti nella Chiesa, cambiamenti anche nella trasmissione della stessa dottrina da sempre insegnata dalla Sposa di Cristo, la quale è al servizio della Verità, dunque responsabile della salvezza di ognuno e delle genti verso le quali è tenuta ad essere missionaria, come insegnò il Salvatore agli Apostoli (Mc. 16,15-18).
Fra i XXI Concili della storia della Chiesa soltanto l’ultimo, il Vaticano II, non è dogmatico, ma pastorale e soltanto l’ultimo è stato indetto non per risolvere scottati questioni, ma per relazionarsi familiarmente con il mondo “moderno” di allora, un mondo entrato oggi nel “postmoderno” e in traumatica crisi religiosa, etica, sociale, politica, economica. «Il concilio di Nicea mise un termine a un disordine che si era già introdotto precedentemente nella Chiesa, e l’eresia ariana è progressivamente regredita fino a scomparire proprio grazie all’applicazione degli insegnamenti di quel Concilio. Dopo il Vaticano II, invece, si è costretti a constatare che le cose non sono andate così: che il disordine si sia introdotto nella Chiesa a partire dal Concilio è un fatto riconosciuto da tutti. A distanza di cinquant’anni, poi, il disordine è divenuto endemico e si è normalizzato. La causa è da ravvisare unicamente nel conflitto di due ermeneutiche opposte?» (p. 6).
Fu proprio Benedetto XVI, nell’ ormai storico discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 a paragonare i 50 anni del post Concilio al periodo successivo al Concilio di Nicea (325), citando le parole di san Basilio Magno (329-379): «Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa, falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede» (p. 5).
Sul soglio di san Pietro è mutato il Pontefice, ma i problemi sono rimasti gli stessi. Sarà la Divina Provvidenza, con gli uomini di buona volontà, a sciogliere i terribili nodi, Lei che «sa sempre e infallibilmente scrivere dritto sulle linee storte degli interventi umani nell’opera della redenzione» (p. 4).
Fonte: http://www.corrispondenzaromana.it/vaticano-ii-un-dibattito-aperto-di-don-jean-michel-gleize/
Ignorare i problemi, non significa risolverli; rimuoverli significa dare ad essi la possibilità di svolgere la loro opera corrosiva e distruttiva. Il Concilio Vaticano II è un problema, la cui risoluzione continua ad essere posticipata, mentre la secolarizzazione ha trovato sempre più terreno fertile, in ogni ambiente, sia laico che ecclesiastico.Lo spiega un chiaro e solido saggio di don Jean-Michel Gleize, Vaticano II. Un dibattito aperto. Questioni disputate sul XXI Concilio Ecumenico (Editrice Ichthys, 2013, pp. 225, € 20.00). L’autore, che dal 2009 al 2011 ha preso parte ai colloqui dottrinali con la Santa Sede richiesti alla Fraternità Sacerdotale San Pio X da Benedetto XVI, nel suo studio affronta tre grandi tematiche e la loro indivisibile correlazione: la Tradizione, il Magistero, la Fede. La seconda parte è strutturata in forma di undici quaestiones disputatae, secondo la metodologia classica della Scolastica. Ciascuna questione si compone a sua volta di tre parti: l’elenco delle obiezioni; il principio di base della risposta; le risposte alle obiezioni.Testi come Lumen gentium, dove viene presentata la Chiesa come «popolo di Dio», Nostra aetate sulle religioni non cristiane, Unitatis redintegratio sull’ecumenismo e Dignitatis humanae sulla libertà religiosa «conducono effettivamente e con ragione a domandarsi, come dice il cardinale Ratzinger, “se la Chiesa di oggi è realmente la stessa di ieri, o se l’hanno cambiata con qualcos’altro senza dirlo alla gente”» (p. 7). A tutti sono evidenti i grandi cambiamenti (usi e costumi) avvenuti nella Chiesa, cambiamenti anche nella trasmissione della stessa dottrina da sempre insegnata dalla Sposa di Cristo, la quale è al servizio della Verità, dunque responsabile della salvezza di ognuno e delle genti verso le quali è tenuta ad essere missionaria, come insegnò il Salvatore agli Apostoli (Mc. 16,15-18).
Fra i XXI Concili della storia della Chiesa soltanto l’ultimo, il Vaticano II, non è dogmatico, ma pastorale e soltanto l’ultimo è stato indetto non per risolvere scottati questioni, ma per relazionarsi familiarmente con il mondo “moderno” di allora, un mondo entrato oggi nel “postmoderno” e in traumatica crisi religiosa, etica, sociale, politica, economica. «Il concilio di Nicea mise un termine a un disordine che si era già introdotto precedentemente nella Chiesa, e l’eresia ariana è progressivamente regredita fino a scomparire proprio grazie all’applicazione degli insegnamenti di quel Concilio. Dopo il Vaticano II, invece, si è costretti a constatare che le cose non sono andate così: che il disordine si sia introdotto nella Chiesa a partire dal Concilio è un fatto riconosciuto da tutti. A distanza di cinquant’anni, poi, il disordine è divenuto endemico e si è normalizzato. La causa è da ravvisare unicamente nel conflitto di due ermeneutiche opposte?» (p. 6).
Fu proprio Benedetto XVI, nell’ ormai storico discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 a paragonare i 50 anni del post Concilio al periodo successivo al Concilio di Nicea (325), citando le parole di san Basilio Magno (329-379): «Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa, falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede» (p. 5).
Sul soglio di san Pietro è mutato il Pontefice, ma i problemi sono rimasti gli stessi. Sarà la Divina Provvidenza, con gli uomini di buona volontà, a sciogliere i terribili nodi, Lei che «sa sempre e infallibilmente scrivere dritto sulle linee storte degli interventi umani nell’opera della redenzione» (p. 4).
Fonte: http://www.corrispondenzaromana.it/vaticano-ii-un-dibattito-aperto-di-don-jean-michel-gleize/
domenica 4 agosto 2013
Assisi, roccaforte del Francescanesimo
di Margherita del Castillo
Francesco fu proclamato santo da Gregorio IX il 16 luglio 1228. Il giorno seguente il Pontefice fu invitato sul monte Subasio per benedire la prima pietra della chiesa che da lì a due anni avrebbe accolto la salma del Poverello di Assisi. Culmina qui il nostro cammino sulle orme del Santo, sul colle fuori dalla porta occidentale della città umbra, dove Frate Elia, primo priore dell’Ordine, intraprese la costruzione della basilica inferiore, divenuta roccaforte del Francescanesimo.
Ed a una fortificazione, di fatto, questa chiesa assomiglia, con quei suoi contrafforti poderosi che la sostengono sul pendio. L’interno, cui si accede attraverso un portale duecentesco, ha pianta a forma di Tau, simbolo francescano per eccellenza. Alla fine del XIII secolo alla struttura originaria si aggiunsero l’atrio d’ingresso e le cappelle laterali, la cui apertura comportò la perdita di parte delle Storie di San Francesco e Storie della Passione affrescate sulle pareti della navata centrale da un pittore umbro attivo intorno alla metà del 1200.
La Cappella della Maddalena è la terza sul lato destro: la sua decorazione venne affidata a Giotto di Bondone nei primi anni del 1300 (1307 -1308) anche se l’attribuzione al maestro non è condivisa da tutti gli studiosi che chiamano in causa, piuttosto, la sua bottega. Volta e pareti sono interamente ricoperte di affreschi che riproducono, rispettivamente, coppie di santi ed episodi della vita della Maddalena. Pochi anni più tardi l’altro grande pittore del Trecento, Simone Martini, realizzò le storie di San Martino nell’omonima cappella (la prima sul lato sinistro). Ad entrambi e ad altri illustri artisti quali Cimabue e Pietro Lorenzetti si deve lo splendore del presbiterio al centro del quale è collocato l’altare gotico, in perfetta corrispondenza con la tomba del Santo nella cripta sottostante, vero cuore di tutto il complesso.
Tipico esempio di gotico italiano è la Basilica superiore, con facciata a capanna decorata da un rosone centrale e aula unica interna attraversata da archi a sesto acuto, coperta da volte a crociera e conclusa da transetto e abside poligonale. Anche qui il programma iconografico, vera e propria bibbia per i poveri, intrapreso fin dalla consacrazione della chiesa del 1253, fu portato avanti da maestri eccelsi, cominciando da Cimabue cui, dal 1277, si devono due grandi Crocefissioni, le storie di Maria e quelle dell’Apocalisse nella zona presbiteriale, ora in cattivo stato di conservazione.
Il ciclo più famoso è senz’altro quello del registro inferiore della navata con le Storie di San Francesco (1290 – 1296?) , ispirate alla Legenda Maior di San Bonaventura da Bagnoregio, biografia ufficiale del Santo. La tradizione storiografica più antica attribuisce gli affreschi a Giotto: probabilmente eseguiti da mani diverse, i ventotto riquadri hanno indotto gli studiosi ad aprire una questione giottesca, tuttora irrisolta. Il forte realismo, l’eloquenza delle espressioni e dei gesti, la rivoluzionaria inquadratura prospettica delle architetture raffigurate hanno, comunque, segnato una svolta decisiva nella storia della pittura occidentale che da allora non sarebbe stata più la stessa.
Questa specialis ecclesia, elevata da Benedetto XIV nel 1754 alla dignità di Basilica Patriarcale e Cappella Papale è da sempre meta di incessanti pellegrinaggi di fedeli che invocano il Pellegrino di Dio affinché da uomini distratti possano diventare “cercatori attenti del Signore in ogni cosa”.
Fonte: http://www.lanuovabq.it/it/articoli-assisi-roccaforte-del-francescanesimo-7007.htm
Francesco fu proclamato santo da Gregorio IX il 16 luglio 1228. Il giorno seguente il Pontefice fu invitato sul monte Subasio per benedire la prima pietra della chiesa che da lì a due anni avrebbe accolto la salma del Poverello di Assisi. Culmina qui il nostro cammino sulle orme del Santo, sul colle fuori dalla porta occidentale della città umbra, dove Frate Elia, primo priore dell’Ordine, intraprese la costruzione della basilica inferiore, divenuta roccaforte del Francescanesimo.
Ed a una fortificazione, di fatto, questa chiesa assomiglia, con quei suoi contrafforti poderosi che la sostengono sul pendio. L’interno, cui si accede attraverso un portale duecentesco, ha pianta a forma di Tau, simbolo francescano per eccellenza. Alla fine del XIII secolo alla struttura originaria si aggiunsero l’atrio d’ingresso e le cappelle laterali, la cui apertura comportò la perdita di parte delle Storie di San Francesco e Storie della Passione affrescate sulle pareti della navata centrale da un pittore umbro attivo intorno alla metà del 1200.
La Cappella della Maddalena è la terza sul lato destro: la sua decorazione venne affidata a Giotto di Bondone nei primi anni del 1300 (1307 -1308) anche se l’attribuzione al maestro non è condivisa da tutti gli studiosi che chiamano in causa, piuttosto, la sua bottega. Volta e pareti sono interamente ricoperte di affreschi che riproducono, rispettivamente, coppie di santi ed episodi della vita della Maddalena. Pochi anni più tardi l’altro grande pittore del Trecento, Simone Martini, realizzò le storie di San Martino nell’omonima cappella (la prima sul lato sinistro). Ad entrambi e ad altri illustri artisti quali Cimabue e Pietro Lorenzetti si deve lo splendore del presbiterio al centro del quale è collocato l’altare gotico, in perfetta corrispondenza con la tomba del Santo nella cripta sottostante, vero cuore di tutto il complesso.
Tipico esempio di gotico italiano è la Basilica superiore, con facciata a capanna decorata da un rosone centrale e aula unica interna attraversata da archi a sesto acuto, coperta da volte a crociera e conclusa da transetto e abside poligonale. Anche qui il programma iconografico, vera e propria bibbia per i poveri, intrapreso fin dalla consacrazione della chiesa del 1253, fu portato avanti da maestri eccelsi, cominciando da Cimabue cui, dal 1277, si devono due grandi Crocefissioni, le storie di Maria e quelle dell’Apocalisse nella zona presbiteriale, ora in cattivo stato di conservazione.
Il ciclo più famoso è senz’altro quello del registro inferiore della navata con le Storie di San Francesco (1290 – 1296?) , ispirate alla Legenda Maior di San Bonaventura da Bagnoregio, biografia ufficiale del Santo. La tradizione storiografica più antica attribuisce gli affreschi a Giotto: probabilmente eseguiti da mani diverse, i ventotto riquadri hanno indotto gli studiosi ad aprire una questione giottesca, tuttora irrisolta. Il forte realismo, l’eloquenza delle espressioni e dei gesti, la rivoluzionaria inquadratura prospettica delle architetture raffigurate hanno, comunque, segnato una svolta decisiva nella storia della pittura occidentale che da allora non sarebbe stata più la stessa.
Questa specialis ecclesia, elevata da Benedetto XIV nel 1754 alla dignità di Basilica Patriarcale e Cappella Papale è da sempre meta di incessanti pellegrinaggi di fedeli che invocano il Pellegrino di Dio affinché da uomini distratti possano diventare “cercatori attenti del Signore in ogni cosa”.
Fonte: http://www.lanuovabq.it/it/articoli-assisi-roccaforte-del-francescanesimo-7007.htm
sabato 3 agosto 2013
Dio parla nel silenzio
Considerazioni sugli esercizi spirituali di Sant'Ignazio di Loyola
di Matteo D'Amico
di Matteo D'Amico
La Provvidenza di Dio si manifesta in
molti modi, anzi, per dire meglio, tutto ciò che accade manifesta, in
realtà, la grandezza, la sapienza e la profondità della sua Provvidenza.
Ma, se tutto, in un certo senso, è segno e manifestazione dell’infinita
e santa Provvidenza del Creatore di tutte le cose, è però anche vero
che forse nulla la testimonia come il fatto che in ogni epoca Dio
suscita i santi ad essa più opportuni, adatti e quasi, diremmo,
necessari.
Ogni santo è infatti strumento nelle
mani di Dio per rafforzare il popolo cristiano, difendere la Chiesa dai
suoi nemici, debellare l’errore o l’eresia infiltratisi fin nel seno
della Sposa di Cristo, edificare i popoli e dilatare il regno di Cristo
nostro Signore sulla Terra.
Chi non riconoscerebbe, infatti, la
perfetta risposta ai mali dell’epoca che hanno rappresentato un san
Benedetto o un san Gregorio Magno, un san Francesco o un san Domenico,
una santa Margherita Alacoque o un san Paolo della Croce, una santa
Veronica Giuliani o un san Giovanni Bosco? Ma in realtà ogni santo,
senza eccezione, è sempre voluto e suscitato da Dio per un compito
preciso, in vista di una battaglia particolare al servizio della Chiesa e
viene munito dei carismi, dei doni delle ispirazioni e delle grazie
necessarie alla missioni affidatagli.
Questo è anche il caso del grandissimo sant’Ignazio de Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù. Sant’Ignazio viene suscitato dal Signore in vista della grande guerra civile europea
che avrebbe visto scontrarsi, nei secoli successivi, il mondo
protestante, vera armata di Satana, e la Chiesa cattolica. Certo, quando
si pensa ai gesuiti vengono in mente innanzitutto i suoi grandi
missionari, i suoi martiri, la riconquista di regioni e stati eretici a
Cristo, la grande cultura e preparazione teologica che da subito li
distinse, i Collegi che fondarono in tutto il mondo e la tradizione
pedagogica alla quale diedero inizio.
Eppure, nonostante i grandissimi meriti
che in ogni campo accumularono, tanto che l’assalto delle rivoluzioni
settecentesche e ottocentesche agli stati cattolici non può avere corso
se non dopo la soppressione di tale ordine religioso, il più grande dono
che sant’Ignazio ha fatto alla Chiesa sono sicuramente i suoi Esercizi
Spirituali.
Come noto nel lungo ritiro (1522) che
Ignazio condusse nella grotta di Manresa ne ricevette l’ispirazione
dalla Santa Vergine stessa e li compose in un testo autografo, poi
andato perduto. Da allora iniziò a darli e a farli dare regolarmente dai
suoi confratelli ottenendo frutti di conversione e di santificazione
straordinari. Il caso più famoso forse, fra i tanti che si potrebbero
citare, è quello di san Francesco Saverio, il grande missionario delle
Indie, che in circa dieci anni di missione battezzò più di un milione di
persone (una media matematica di 273 battesimi al giorno!) e fece
edificare qualcosa come 6000 chiese e cappelle (una media di 1,6 chiese
nuove al giorno!). Ebbene san Francesco Saverio non provava molta
simpatia per sant’Ignazio, come noto, e aveva forti ambizioni mondane;
ma sant’Ignazio, che aveva compreso la straordinaria tempra, la nobiltà e
la forza di carattere di quest’uomo, deciso a conquistarlo a Cristo in
ogni modo, lo convinse a fare gli esercizi e per un mese lui
personalmente glieli diede: Francesco Saverio, grazie agli esercizi, si
convertì profondamente e divenne poi quell’eroico missionario che
abbiamo visto sopra.
Quasi non ci sono parole per dire la
grandezza degli Esercizi, e parleremo qui, va notato, solo di quelli
condotti in cinque giorni, dal mezzogiorno del lunedì, al mezzogiorno
del sabato, secondo il metodo messo a punto da padre Vallet negli anni
’30, non degli esercizi nella loro struttura originaria, che prevedono
un ritiro di 30 giorni e la cui ricchezza e fruttuosità pensiamo si
possa solo a stento immaginare.
Gli Esercizi sono così ricchi di doni
spirituali, di grazie, di consolazioni, di rivelazioni, di aiuti
soprannaturali che ci si stupisce di come, facendo, in fondo, così poco,
si possa ottenere tanto. Sembra che il Signore ami quasi scherzare con
chi vi si reca, e si diverta a stupirlo con l’abbondanza delle grazie e
delle consolazioni che gli dona in cambio di sforzi tanto semplici ed
elementari. Il contrasto è così forte che pare che, in cambio di
esercizi che potrebbero essere paragonati alle regole di un gioco per
fanciulli, Dio si compiaccia di regalare tesori il cui valore e la cui
preziosità a stento si possono esprimere. Con ciò noi siamo, in fondo,
già giunti al cuore e al fondamento di tutta la vita spirituale, quale
ci viene svelata proprio dagli Esercizi. Infatti, se si ottiene la
grazia di liberarsi da ogni illusione circa ciò che sta a fondamento
della vita cristiana, noi scopriamo proprio che la nostra
santificazione, che ogni nostra crescita nella vita di fede, altro non è
che opera immensa e sublime di Dio in noi, opera svolta dal Creatore di
tutte le cose a fronte soltanto delle nostre umili preghiere e del
nostro sforzo, sempre imperfetto, di donarci a lui con sincerità e con
filiale abbandono. In altre parole ciò che accade durante gli Esercizi
può essere visto anche come una figura limpida e concentrata di tutta
l’opera della salvezza operata da Cristo nel cuore di ogni fedele: in
contraccambio del poco, del quasi nulla, vorremmo dire, che noi facciamo, purchè ci sia almeno un desiderio sincero di donarci a Lui, Gesù ci ricolma di ogni grazia.
Il breve e semplice testo che qui
presentiamo non ha l’intenzione di ricostruire la storia degli Esercizi
Spirituali, impresa che richiederebbe ben altra forza e preparazione, né
di analizzarli compiutamente dal punto di vista della ascetica e della
mistica cristiana, ma si propone solo di cercare di coglierne il
significato spirituale e di dare una semplice descrizione del loro
andamento, del loro svolgersi; la nostra speranza è però soprattutto
che, a Dio piacendo, le nostre povere parole possano suscitare in chi
ancora non li ha mai fatti un vivo desiderio di conoscerli direttamente e
di farli al più presto; in chi li ha già fatti, magari molti anni fa,
il fermo proponimento di tornare a farli il più presto e il più
regolarmente possibile.
Ritiro
Il ritiro spirituale precede ed
è più antico, ovviamente, degli Esercizi spirituali, ma la prima cosa
che si deve osservare è proprio che gli Esercizi non escludono, ma anzi
includono e si fondano virtuosamente e armoniosamente sulla solida base
del ritiro spirituale. Fin dall’Antico Testamento abbiamo innumerevoli
esempi di ritiri spirituali cercati dai patriarchi o dai profeti come
momenti di faccia a faccia con Dio, di ascolto della sua voce, di
raccoglimento e di ristoro. Nel Nuovo Testamento Maria Vergine, la cui
vita era tutta impareggiabilmente ritirata e silenziosa, san Giuseppe e
san Giovanni Battista, sono grandi esempi di profondissimo ritiro
spirituale, nel caso del Battista elevato, si può dire anticipando tutto
il monachesimo dei secoli successivi, a stato di vita scelto
formalmente e praticato in modo eroico e radicale. Nostro Signore Gesù
Cristo, volendo anche in questo essere a noi di esempio, dopo una vita
nascosta durata trent’anni di abissale e insondabile silenzio e
raccoglimento –una vita che, come quella della Vergine Immacolata, era
già un ritiro profondissimo dal mondo– si prepara alla sua vita
pubblica, ovvero al cammino che in pochi anni culminerà nella Sua santa
Passione e nella Croce, con un ritiro di quaranta giorni nel deserto,
nel digiuno più assoluto e nella preghiera più costante.
Ora, se è vero che la vita del cristiano
dovrebbe essere, a imitazione di quella del divin Redentore, tutta e
sempre ritirata, ovvero dominata da un profondo raccoglimento
spirituale, dal silenzio, dalla meditazione, dalla non dissipazione di
sé, è altrettanto vero che non è possibile mantenere questo stato
spirituale di raccoglimento senza vivere, almeno in periodi determinati,
momenti di vero e proprio ritiro, anche fisico, dal mondo. Gli Esercizi
offrono innanzitutto questa possibilità e proprio in ciò sta la loro
prima virtù: anche al di là delle loro specificità, che vedremo più
avanti, sono una splendida occasione di ritiro. Dunque è del tutto vano
contrapporre ritiro ed Esercizi, come se fossero due cose radicalmente
diverse; al contrario, gli Esercizi incorporano in sé tutto ciò che fa
parte di un ritiro, con in più alcuni elementi caratterizzanti che non
troviamo altrove.
È infatti importante osservare che il
luogo in cui si svolgono gli Esercizi deve essere, e normalmente è,
ritirato, isolato, silenzioso, in un certo senso protetto dalla continua
pressione del mondo che normalmente avvertiamo e che grava anche sulla
persona più spirituale.
Il ritiro è essenziale per ritornare
pienamente in sé e ascoltare con attenzione e devozione le parole che il
Signore, con la sua infinita dolcezza e discrezione, non cessa di
dirci, senza che, normalmente, riusciamo pienamente a comprenderle.
Certo è importante, perché si entri
durante gli Esercizi in un ardente e luminoso deserto spirituale,
intessuto di silenzio e di ascolto, che essi siano predicati secondo la
vera tradizione della Chiesa, secondo la sapienza antica che li ha
sempre governati e da sacerdoti lungamente esercitatisi nella difficile
arte di darli. Il ritiro che accompagna e permea di sé gli Esercizi non
sarebbe tale se, ad esempio, non venisse consegnato il cellulare
all’inizio di esso e se non si lasciasse ogni contatto con la famiglia,
con la casa, con gli amici, con il lavoro, rinunciando a telefonare, a
lavorare, a controllare le e-mail, a parlare, a leggere il giornale e a
essere informati. Questo rescindere ogni contatto con il mondo al quale
normalmente apparteniamo è quasi figura di quella purificazione del
cuore che è giusto e doveroso cercare e attendersi dagli Esercizi: come
la più piccola affezione disordinata alle creature, per quanto nascosta,
impedisce da sola una vera crescita spirituale e la santificazione
delle anime; allo stesso modo il voler mantenere anche solo un tenue
contatto con il mondo (ad esempio una telefonata di controllo la sera,
per vedere se tutto va bene, e se il mondo continua a girare nonostante
la nostra assenza…) sarebbe già sufficiente a impedire dei buoni
Esercizi. È necessario dunque andare e affrontare gli Esercizi
profondamente decisi a “rompere” per cinque brevi giorni ogni contatto
con il mondo, profondamente decisi a vivere un ritiro assoluto da ogni
cura, da ogni preoccupazione, da ogni interesse mondano, mascherato
magari da zelo per la propria famiglia.
Silenzio
La dimensione di ritiro che caratterizza
gli Esercizi di sant’Ignazio si manifesta anche in quella che è forse
avvertita come la loro nota più intensa e importante, ovvero il
silenzio. “Ritiro silenzioso, ritiro meraviglioso” si sente spesso
ripetere dai sacerdoti, ed in effetti gli esercizi senza un profondo
silenzio sono quasi inconcepibili. Con silenzio non intendiamo
solo alludere al silenzio della bocca, alla necessità di non parlare con
nessuno degli altri partecipanti, ma anche al “silenzio degli occhi”,
ovvero al dominio di quella curiosità disordinata che ci spinge a
cercare di scrutare e vedere sempre il volto delle persone che
incontriamo e che ci circondano e a osservare ciò che fanno. Questa
curiosità degli occhi sembra un elemento insignificante, ma è invece un
grave ostacolo a una vera vita spirituale e una porta lasciata aperta a
mille dissipazioni e distrazioni, a innumerevoli tentazioni.
Dunque, se il silenzio come rinuncia a
parlare rappresenta quasi lo sfondo naturale degli Esercizi, il silenzio
degli occhi lo completa e lo arricchisce di una dimensione altrettanto
importante. E qui va osservato che in realtà i “due” silenzi, della
bocca (la rinuncia a parlare), e degli occhi (la rinuncia a guardare),
sono in realtà un unico grande silenzio, rappresentano due gesti che si
compongono e si sostengono reciprocamente, tanto che sembra impossibile
si dia l’uno senza l’altro. Gli occhi bassi, lo sguardo sorvegliato
mentre si passeggia o ci si sposta lungo i corridoi sono un potente
aiuto a evitare di parlare con chi incontro: non vedendo chi è, è meno
forte l’eventuale desiderio di parlargli.
Si può a questo punto osservare che, in
un certo senso, la qualità degli Esercizi e dei frutti che se ne
trarranno dipende in larga misura dalla perfezione del silenzio in cui
volontariamente ci si rinchiude, in cui ci si sprofonda come in una
gioiosa solitudine, in un deserto invisibile che dolcemente ci avvolge
da ogni parte. Ci si accorge subito, dal primo giorno, che si sarebbe
potuto essere più attenti, più scrupolosi, più fedeli, che in molte
occasioni abbiamo ceduto, sia pure per un istante brevissimo, alla
curiosità, che abbiamo fatto un sorriso o scambiato uno sguardo, o che,
pur evitando di osservare il volto delle persone che stanno vicino a
noi, abbiamo prestato attenzione alla loro persona, siamo stati attenti
ai loro movimenti, abbiamo cercato di intuire di chi si trattasse.
Se si vogliono fare dei buoni Esercizi
non basta dunque accettare il silenzio passivamente e quasi a
malincuore, sopportandolo con fatica e senza zelo: al contrario, occorre
sceglierlo, amarlo, rispettarlo con “fanatica” determinazione dal primo
istante, imporsi di arrivare alla fine del ritiro senza avere
riconosciuto nessuna delle persone che sono in ritiro con noi. La nostra
solitudine deve essere, se possibile, assoluta e ininterrotta. Fra i
tanti frutti che dà il silenzio vissuto con vero ardore e come primo
atto di amore per Gesù durante gli Esercizi, bisogna annoverare anche il
fatto forse più importante, ovvero che esso aiuta ad acquisire un habitus
morale che, con l’aiuto di Dio, si può –e si dovrebbe!– mantenere,
almeno in parte, anche nella propria vita quotidiana, nei viaggi, al
lavoro, durante i momenti di ricreazione, a scuola.
Certo però il silenzio non sarebbe
autentico e non sarebbe cristiano e spiritualmente edificante se non
fosse tutto intessuto di giaculatorie, di preghiere, di colloqui ora
brevi, ora più intensi e prolungati, con Gesù, con Maria, con i santi a
noi più cari, se non fosse pervaso di un’immensa gratitudine per la
bontà di Dio, così manifesta già solo nel fatto di averci concesso di
essere appunto agli Esercizi. È dopo un silenzio vissuto davvero con
amore pieno che si possono iniziare a capire le frasi abissali del
cardinal Mercier, contenute nel suo scritto su La mortificazione cristiana: “Fatevi dimenticare con il vostro silenzio”, “Non parlate mai di voi né in bene, né in male”.
Abituati ad agire, a parlare, a dare
importanza alle cose, alle decisioni, agli incontri, all’essere
informati, al seguire le vicende sempre diverse e sempre uguali del
mondo, ecco che si viene lentamente rieducati ad amare l’unica cosa
necessaria, l’intimità, l’amicizia, la fedeltà, la vicinanza a Nostro
Signore, la contemplazione delle sue virtù sublimi e del suo amore
infinito per noi. Così inteso ogni istante di vero, fervente silenzio
diventa un atto d’amore a Gesù.
Non va infine dimenticata la cosa più
importante, ovvero che il silenzio non è tanto da pensarsi
negativamente, come riducentesi al nostro atto di tacere, ma è realtà
soprattutto positiva, consistente nell’operare dello Spirito Santo in
noi, nelle parole che Dio silenziosamente ci porge.
Nutrire la fede
Nulla è più alieno da uno spirito
autenticamente cattolico del ridurre la vita di fede a dottrina, o
dottrinarismo, a conoscenza intellettualistica degli articoli di fede.
La vita del cristiano certo deve fondarsi anche su solide conoscenze dei
dogmi della propria fede, ma non può ridursi a questo, non può nutrirsi
solo di conoscenza; infatti il dogma stesso diventa vivo solo come dogma contemplato e pregato,
portato dentro la propria vita quasi come sua sostanza impalpabile, ma
fondante. Gli Esercizi aiutano proprio in questo sforzo sublime ed
essenziale, infatti in essi si riceve sì un grande nutrimento di fede,
venendo di fatto ricapitolata, giorno dopo giorno, tutta la dottrina
cristiana, ma soprattutto ci si abitua a rendere vivo e operante nella
propria quotidianità quanto creduto. Ciò che credo infatti, vengo
educato a contemplarlo in modo vivo, attuale, esistenzialmente
significativo: in altre parole vengo educato a incarnare la mia fede, a
superare ogni scissione fra vita e fede. Se non si passa attraverso il
dogma contemplato e pregato come durante gli Esercizi, forte è il
rischio di una declinazione della fede di tipo moralistico, che ben
presto può sfociare nell’aridità o nell’insignificanza, nella tiepidezza
o nel fariseismo, nello zelo amaro e nella rinuncia pratica a
santificarsi.
Ciò che difficilmente si impara senza
Esercizi è la difficile arte dell’applicare a sé quanto credo e quanto
prego, del comprendere come non ci sia una parola della Sacra Scrittura,
un solo versetto di un salmo, un solo passaggio dell’Ave Maria che io
non possa applicare a me, che non descriva un mio bisogno, una mia
ferita, una mia povertà, una mia speranza, il mio passato, il mio
presente.
La necessità degli Esercizi discende
dunque dal fatto che, senza imparare a fare bene la meditazione ogni
giorno, non è possibile una vera crescita spirituale. E senza fare gli
esercizi è difficile imparare a fare bene la meditazione. Cinque giorni
sono pochi, ma diventano preziosi se in essi imparo qualcosa che
illuminerà tutto il resto della mia vita, se faranno di me quasi un
altro uomo, deciso ad appartenere tutto e totalmente e sempre a Cristo.
Fonte: http://www.sanpiox.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=1002%3Adio-parla-nel-silenzio&catid=62&Itemid=82
giovedì 1 agosto 2013
Francescani dell’Immacolata e la crisi della Chiesa: perché non si può tacere
di Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro
Come accade spesso nelle tragedie, sono i
particolari a dare l’idea della loro enormità, e il caso del
commissariamento dei Francescani dell’Immacolata non fa eccezione.
Il dettaglio è lì, verso il fondo del decreto della Commissione per gli Istituti di Vita Consacrata firmato dal segretario, il francescano Josè Rodriguez Carballo. Vi si dice: «Infine, spetterà ai Frati Francescani dell’Immacolata il rimborso delle spese sostenute da detto Commissario e dai collaboratori da lui eventualmente nominati, sia l’onorario per il loro servizio». Proprio così, con uno sfregio che evoca l’uso dei regimi totalitari di addebitare ai familiari dei condannati il costo delle pallottole usate per l’esecuzione. L’immagine potrà anche apparire forte, ma è la portata clamorosa dell’evento a suggerirla.In una sola mossa, non vengono esautorati solo il fondatore di un ordine fiorente e i vertici che lo assistono, ma anche il Motu proprio di Benedetto XVI che liberalizza la celebrazione della Messa in rito gregoriano, il Pontefice che lo ha emanato e, in definitiva, la Messa stessa. Perché, dopo il dettaglio delle spese a carico della vittima di un provvedimento iniquo, arriva l’affondo finale: «il Santo Padre Francesco ha disposto che ogni religioso della Congregazione dei Frati Francescani dell’Immacolata è tenuto a celebrare la liturgia secondo il rito ordinario e che, eventualmente, l’uso della forma straordinaria (Vetus Ordo) dovrà essere esplicitamente autorizzata dalle competenti autorità, per ogni religioso e/o comunità che ne farà richiesta».Essendo l’unico ordine esplicito contenuto nel documento, è dunque evidente che questo è il problema: la Messa in rito antico. E a cosa conduca il terribile vizio di celebrare tale rito lo spiega il commissario, padre Fidenzio Volpi, nella sua lettera di presentazione composta dal mite saluto «Pace e Bene!», da una chilometrica citazione dell’attuale Pontefice e da una sintetica chiusa che esordisce con un minaccioso «Credo di non dover aggiungere nulla a un pensiero così chiaro e così pressante di Papa Francesco».Secondo padre Volpi, il terribile vizio del rito antico porterebbe al reato di lesa «ecclesialità»: un concetto che vuol dire tutto e niente. Forse, per comprendere che cosa contenga questo termine, bisogna por mente a che cosa è avvenuto a Rio de Janeiro durante la Giornata mondiale delle gioventù, proprio mentre i Francescani dell’Immacolata venivano commissariati. Basti pensare, per fare un solo esempio di quella che i media hanno battezzato «la Woodstock della Chiesa», alla grottesca esibizione dei vescovi che ballano il Flashmob guidati da un Fiorello di quart’ordine: uno spettacolo che neanche il Lino Banfi e il Bombolo dei tempi d’oro avrebbero saputo mettere in scena.Se questa è «ecclesialità», si comprende perché i Francescani dell’Immacolata la violino costantemente: portano il saio, fanno digiuni e penitenza, pregano, celebrano la Messa, praticano e insegnano una morale rigorosa, vanno in missione a portare Cristo prima dell’aspirina, non combattono l’Aids con i preservativi, hanno una dottrina mariana che poco piace ai fratelli separati di ogni ordine e grado. E poi sono poveri e umili con i fatti invece che con le parole. Stante tutto ciò, la risolutezza disciplinare nei confronti di questo istituto lascia attoniti solo fino a un certo punto. Certo, stupisce una simile durezza nel contesto della Chiesa contemporanea.Una Chiesa nella quale, una volta squillata la campanella dell’intervallo, è iniziata una ricreazione alla quale nessuno ha potuto o voluto mettere fine. Nelle diocesi e nelle congregazioni religiose sparse per il mondo accade di tutto: si insegnano dottrine non cattoliche, si esalta la teologia della liberazione, si sconvolgono le discipline e le regole di ordini millenari, si contesta l’autorità della Chiesa.Ci sono intere “chiese nazionali” che firmano in massa appelli per l’abolizione del celibato, o per il sacerdozio femminile, chiese nelle quali il concubinato abituale dei parroci è diventato un fatto normale e tollerato dalla gerarchie. Una Chiesa nella quale solo i più sprovveduti possono esaltarsi per i tre milioni di partecipanti alla Giornata mondiale della gioventù, mentre in realtà la nave di Pietro procede nel mare in tempesta senza una meta precisa. E, come se non bastasse, sulla nave scarseggia l’equipaggio. Mentre la Congregazione per gli Istituti religiosi usa questi metodi con i Francescani dell’Immacolata che hanno vocazioni copiose in tutti i continenti, in gran parte delle altre famiglie religiose si consuma una spaventosa crisi. Mentre a Roma si affannano a impedire a dei frati francescani di celebrare la Messa che ha fatto secoli di santi e di santità, carmelitani e domenicani, cistercensi e certosini entrano di diritto a far parte delle specie protette dal Wwf.Ma, in questo panorama, per la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata, il problema sono i Francescani dell’Immacolata che celebrano nelle due forme consentite dal Motu Proprio Summorum Pontificum. Con il risultato che il divieto di celebrare il rito antico stabilisce una disciplina sulla Messa che scavalca quanto contenuto nel documento di Benedetto XVI. Evidentemente, il provvedimento è da inserire in un’azione anti-Messa antica a più ampio spettro contenuta nel brumoso concetto di «ecclesialità». Un disegno che non è disposto a riconoscere alla Messa in rito gregoriano la capacità di produrre nemmeno i frutti spirituali che l’estemporaneo magistero di Papa Francesco ha riconosciuto al ramadan musulmano.Eppure, il campo liturgico è quello nel quale il laissez faire di Roma ha raggiunto le vette più vertiginose del tragicomico: preti che ballano e cantano i pezzi dei Ricchi e Poveri mentre celebrano un matrimonio, vescovi che in mondovisione si dimenano come in un villaggio Alpitour, prelati che celebrano il novus ordo facendo elevare pissidi e sacre specie a imbarazzate ragazze Gmg in pantaloncini corti, preti che accompagnano la consacrazione con meravigliose bolle di sapone… E il problema su cui scaricare la ferula disciplinare sarebbero i Francescani dell’Immacolata che celebrano la Messa antica. Bisogna riconoscere che, purtroppo, c’è della logica in tutto questo.Per concludere, ci sono le modalità processuali dell’inchiesta che lasciano perplessi. Roma è stata chiamata a intervenire da un gruppo di religiosi dissidenti dei Francescani dell’Immacolata. Gli accusati però non hanno potuto visionare le carte che contesterebbero loro di aver imboccato una deriva preconciliare. Quindi non hanno goduto di quell’elementare diritto di difesa che consiste nel conoscere in modo dettagliato gli addebiti e il capo di accusa. Inoltre, la Congregazione vaticana vuole impedire ai Francescani di porre ricorso, opponendo la diretta volontà del Papa come base del provvedimento. Insomma, sul piano formale la Chiesa della misericordia del postconcilio, quando vuole, sa rispolverare metodi da santa inquisizione.Bisogna credere e sperare che i Francescani dell’Immacolata faranno appello in sede canonica e difenderanno con fermezza il loro buon diritto di sacerdoti della Chiesa cattolica di celebrare la Messa anche nel rito antico. Perché, se mai questi ottimi frati dovessero accettare il diktat, presto seguirebbero altre, più dure repressioni verso coloro che nel mondo celebrano e seguono la Messa di sempre. L’esercizio iniquo del potere fonda la sua forza sul silenzio delle vittime e pretende, anzi, il loro consenso. Ma la storia insegna che hanno avuto la meglio coloro che davanti all’ingiustizia non hanno taciuto, perché impugnare legittimamente un atto iniquo significa scuotere fin nelle fondamenta il potere che lo ha posto in essere. È venuto il tempo di parlare.
Fonte: http://www.corrispondenzaromana.it/francescani-dellimmacolata-e-la-crisi-della-chiesa-perche-non-si-puo-tacere/
Il dettaglio è lì, verso il fondo del decreto della Commissione per gli Istituti di Vita Consacrata firmato dal segretario, il francescano Josè Rodriguez Carballo. Vi si dice: «Infine, spetterà ai Frati Francescani dell’Immacolata il rimborso delle spese sostenute da detto Commissario e dai collaboratori da lui eventualmente nominati, sia l’onorario per il loro servizio». Proprio così, con uno sfregio che evoca l’uso dei regimi totalitari di addebitare ai familiari dei condannati il costo delle pallottole usate per l’esecuzione. L’immagine potrà anche apparire forte, ma è la portata clamorosa dell’evento a suggerirla.In una sola mossa, non vengono esautorati solo il fondatore di un ordine fiorente e i vertici che lo assistono, ma anche il Motu proprio di Benedetto XVI che liberalizza la celebrazione della Messa in rito gregoriano, il Pontefice che lo ha emanato e, in definitiva, la Messa stessa. Perché, dopo il dettaglio delle spese a carico della vittima di un provvedimento iniquo, arriva l’affondo finale: «il Santo Padre Francesco ha disposto che ogni religioso della Congregazione dei Frati Francescani dell’Immacolata è tenuto a celebrare la liturgia secondo il rito ordinario e che, eventualmente, l’uso della forma straordinaria (Vetus Ordo) dovrà essere esplicitamente autorizzata dalle competenti autorità, per ogni religioso e/o comunità che ne farà richiesta».Essendo l’unico ordine esplicito contenuto nel documento, è dunque evidente che questo è il problema: la Messa in rito antico. E a cosa conduca il terribile vizio di celebrare tale rito lo spiega il commissario, padre Fidenzio Volpi, nella sua lettera di presentazione composta dal mite saluto «Pace e Bene!», da una chilometrica citazione dell’attuale Pontefice e da una sintetica chiusa che esordisce con un minaccioso «Credo di non dover aggiungere nulla a un pensiero così chiaro e così pressante di Papa Francesco».Secondo padre Volpi, il terribile vizio del rito antico porterebbe al reato di lesa «ecclesialità»: un concetto che vuol dire tutto e niente. Forse, per comprendere che cosa contenga questo termine, bisogna por mente a che cosa è avvenuto a Rio de Janeiro durante la Giornata mondiale delle gioventù, proprio mentre i Francescani dell’Immacolata venivano commissariati. Basti pensare, per fare un solo esempio di quella che i media hanno battezzato «la Woodstock della Chiesa», alla grottesca esibizione dei vescovi che ballano il Flashmob guidati da un Fiorello di quart’ordine: uno spettacolo che neanche il Lino Banfi e il Bombolo dei tempi d’oro avrebbero saputo mettere in scena.Se questa è «ecclesialità», si comprende perché i Francescani dell’Immacolata la violino costantemente: portano il saio, fanno digiuni e penitenza, pregano, celebrano la Messa, praticano e insegnano una morale rigorosa, vanno in missione a portare Cristo prima dell’aspirina, non combattono l’Aids con i preservativi, hanno una dottrina mariana che poco piace ai fratelli separati di ogni ordine e grado. E poi sono poveri e umili con i fatti invece che con le parole. Stante tutto ciò, la risolutezza disciplinare nei confronti di questo istituto lascia attoniti solo fino a un certo punto. Certo, stupisce una simile durezza nel contesto della Chiesa contemporanea.Una Chiesa nella quale, una volta squillata la campanella dell’intervallo, è iniziata una ricreazione alla quale nessuno ha potuto o voluto mettere fine. Nelle diocesi e nelle congregazioni religiose sparse per il mondo accade di tutto: si insegnano dottrine non cattoliche, si esalta la teologia della liberazione, si sconvolgono le discipline e le regole di ordini millenari, si contesta l’autorità della Chiesa.Ci sono intere “chiese nazionali” che firmano in massa appelli per l’abolizione del celibato, o per il sacerdozio femminile, chiese nelle quali il concubinato abituale dei parroci è diventato un fatto normale e tollerato dalla gerarchie. Una Chiesa nella quale solo i più sprovveduti possono esaltarsi per i tre milioni di partecipanti alla Giornata mondiale della gioventù, mentre in realtà la nave di Pietro procede nel mare in tempesta senza una meta precisa. E, come se non bastasse, sulla nave scarseggia l’equipaggio. Mentre la Congregazione per gli Istituti religiosi usa questi metodi con i Francescani dell’Immacolata che hanno vocazioni copiose in tutti i continenti, in gran parte delle altre famiglie religiose si consuma una spaventosa crisi. Mentre a Roma si affannano a impedire a dei frati francescani di celebrare la Messa che ha fatto secoli di santi e di santità, carmelitani e domenicani, cistercensi e certosini entrano di diritto a far parte delle specie protette dal Wwf.Ma, in questo panorama, per la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata, il problema sono i Francescani dell’Immacolata che celebrano nelle due forme consentite dal Motu Proprio Summorum Pontificum. Con il risultato che il divieto di celebrare il rito antico stabilisce una disciplina sulla Messa che scavalca quanto contenuto nel documento di Benedetto XVI. Evidentemente, il provvedimento è da inserire in un’azione anti-Messa antica a più ampio spettro contenuta nel brumoso concetto di «ecclesialità». Un disegno che non è disposto a riconoscere alla Messa in rito gregoriano la capacità di produrre nemmeno i frutti spirituali che l’estemporaneo magistero di Papa Francesco ha riconosciuto al ramadan musulmano.Eppure, il campo liturgico è quello nel quale il laissez faire di Roma ha raggiunto le vette più vertiginose del tragicomico: preti che ballano e cantano i pezzi dei Ricchi e Poveri mentre celebrano un matrimonio, vescovi che in mondovisione si dimenano come in un villaggio Alpitour, prelati che celebrano il novus ordo facendo elevare pissidi e sacre specie a imbarazzate ragazze Gmg in pantaloncini corti, preti che accompagnano la consacrazione con meravigliose bolle di sapone… E il problema su cui scaricare la ferula disciplinare sarebbero i Francescani dell’Immacolata che celebrano la Messa antica. Bisogna riconoscere che, purtroppo, c’è della logica in tutto questo.Per concludere, ci sono le modalità processuali dell’inchiesta che lasciano perplessi. Roma è stata chiamata a intervenire da un gruppo di religiosi dissidenti dei Francescani dell’Immacolata. Gli accusati però non hanno potuto visionare le carte che contesterebbero loro di aver imboccato una deriva preconciliare. Quindi non hanno goduto di quell’elementare diritto di difesa che consiste nel conoscere in modo dettagliato gli addebiti e il capo di accusa. Inoltre, la Congregazione vaticana vuole impedire ai Francescani di porre ricorso, opponendo la diretta volontà del Papa come base del provvedimento. Insomma, sul piano formale la Chiesa della misericordia del postconcilio, quando vuole, sa rispolverare metodi da santa inquisizione.Bisogna credere e sperare che i Francescani dell’Immacolata faranno appello in sede canonica e difenderanno con fermezza il loro buon diritto di sacerdoti della Chiesa cattolica di celebrare la Messa anche nel rito antico. Perché, se mai questi ottimi frati dovessero accettare il diktat, presto seguirebbero altre, più dure repressioni verso coloro che nel mondo celebrano e seguono la Messa di sempre. L’esercizio iniquo del potere fonda la sua forza sul silenzio delle vittime e pretende, anzi, il loro consenso. Ma la storia insegna che hanno avuto la meglio coloro che davanti all’ingiustizia non hanno taciuto, perché impugnare legittimamente un atto iniquo significa scuotere fin nelle fondamenta il potere che lo ha posto in essere. È venuto il tempo di parlare.
Fonte: http://www.corrispondenzaromana.it/francescani-dellimmacolata-e-la-crisi-della-chiesa-perche-non-si-puo-tacere/
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