FRANCESCANI DELL’IMMACOLATA: anch’io li conosco
di Alessandro Gnocchi
Bisogna riconoscerlo, a volte sono utili anche gli articoli di Massimo
Introvigne. Per quello che vale, questa testimonianza sui Francescani
dell’Immacolata non sarebbe stata scritta senza l’implicito invito
contenuto in una delle encicliche che l’avvocato sociologo pubblica
quasi quotidianamente sulla “Nuova Bussola”.
Pochi giorni fa, a proposito del commissariamento dell’istituto fondato
da padre Stefano Manelli, Introvigne si è lasciato sfuggire la
maldestra insinuazione che le vere cause di quanto avvenuto le
conoscerebbero solo lui e qualche altro iniziato alle segrete carte.Tutti, o quasi, gli altri commentatori della vicenda
avrebbero scritto a capocchia, senza sapere di che cosa si sta parlando,
senza essere illuminati come lui. «Conosco anche i loro problemi» ha scritto dei Francescani dopo la solita lisciata di pelo che precede la coltellata «non sono certo che si possa dire lo stesso per tutti coloro che hanno commentato l’ultima vicenda».
Per corroborare tanto zelo per la verità e la correttezza
dell’informazione, per dare una mano nel mettere al loro posto tutti
quei signori che osano scrivere a capocchia senza sapere ciò che
Introvigne invece sa, vorrei rendere una testimonianza e raccontare
qualche cosa su questi frati e dunque anche sulle suore che fanno parte
della famiglia.Niente di eclatante, si tratta di semplici fatti ai quali,
però, si possono solo opporre altri fatti e non un sibillino “lasciate
parlare me che conosco le segrete carte”. Scrivo una volta
tanto in prima persona, senza l’ausilio di Mario Palmaro, che comunque,
come usa dire oggi, ci legge in copia, perché le testimonianze vanno
rese e verbalizzate singolarmente. Questa breve racconto inizia dal
passato recentissimo. Domenica 4 agosto, mia figlia, che ha diciotto
anni e si chiama Chiara, è tornata da un mese trascorso come missionaria
in Nigeria con le suore francescane dell’Immacolata.La missione nigeriana, come dovrebbero sapere tutti coloro
che parlano di questo istituto e come Introvigne certamente sa, è a
rischio di martirio quotidiano. Lì, ci sono figli e figlie di
padre Manelli che ogni giorno rischiano la vita in nome di Gesù Cristo
e, proprio per questo, prospera una delle imprese spirituali più
fiorenti dell’istituto: quaranta aspiranti maschi e trenta aspiranti
femmine in un Paese a maggioranza musulmana, dove le sette protestanti
fanno di tutto per distruggere quanto costruiscono i cattolici, dove
imperversano le chiese più impensate, dove i pagani che consumano i loro
sacrifici umani poco lontano dai conventi lasciano i resti delle
vittime per le strade in onore dei loro demoni, dove nelle giornate dei
riti cannibali le donne non possono uscire di casa pena la morte. Nel
mondo di “Apocalypto” prima dell’arrivo degli spagnoli.Le suore non possono mai uscire da sole e, in certe occasioni, rischiano la vita solo a mostrarsi.
Eppure, come i frati, continuano a portare Cristo là dove non c’è e a
chi non lo conosce. Assieme ai frati, procurano battesimi,
l’amministrazione dei sacramenti, la celebrazione di Messe, strappano
letteralmente anime e corpi al demonio. Dopo ogni conversione tornano
quotidianamente dai nuovi cristiani per evitare che la loro fede si
intorpidisca e cada di nuovo preda delle false religioni e, quindi,
della disperazione. Appena scesa dall’aereo, alla sua prima ora di
missione, Chiara è stata portata al lebbrosario per pregare in ginocchio
il Rosario davanti al letto di una malata che stava morendo, perché le
anime vanno custodite fino in fondo e non basta riempire le pance.La preghiera è stato il filo d’oro che ha segnato il cammino di mia figlia per tutto il mese:
lo stesso che segna da anni la vita della missione perché è quello che
segna la vita delle suore e dei frati francescani dell’Immacolata. Dopo,
solo dopo, viene l’assistenza materiale, lì, nel mondo di “Apocalypto”
dove, nonostante tutto, le suore e i frati vestiti di azzurro sono
altrettante note di letizia. «Di notte» mi ha raccontato Chiara «mi
veniva da piangere per ciò che vedevo di giorno. Avevo visto l’inferno
mentre io mi sentivo in paradiso. Non è la povertà e non è la miseria a
far piangere, ma la disperazione di un mondo senza Cristo. Di giorno
sentivo le voci dei muezzin, di notte i tam tam dei riti pagani e ho
toccato con mano che il demonio esiste davvero, ho provato sulla mia
pelle che la religione vera è una sola ed è la nostra. Lo scudo più
potente contro la presenza del demonio era il canto gregoriano dei frati
e delle suore, il Rosario recitato continuamente, le veglie e le Messe
celebrate come piace al Signore».«Chiara, se vogliamo che la nostra missione diventi ancora più fiorente» ha detto una suora a mia figlia poco prima che partisse «bisogna
che qualcuna di noi muoia e offra la sua vita perché non c’è niente di
più fecondo del sangue offerto per Gesù. I frati sono già morti, ora
tocca a noi». Sono poveri, piccoli fatti, piccoli frutti sperduti
nell’Africa profonda che però mostrano di che pasta siano le radici
dell’albero piantato nel saldo terreno della fede cattolica da padre
Manelli nel 1970.L’impronta in quelle suore e in quei frati che accettano il martirio per far fiorire la vita cristiana è la sua.
Da anni, quest’uomo vive nella sofferenza come il suo padre spirituale
San Pio da Pietrelcina. Qualche tempo fa, quando i medici non sapevano
che cosa fare per guarirlo dal male che lo tormentava, un sacerdote che
lo conosce bene mi disse «I dottori stanno tentando di tutto, ma non
riescono a far niente perché non capiscono che quest’uomo sta offrendo
le sue sofferenze per il bene della Chiesa. Ha scelto di portare sul suo
corpo le piaghe del Corpo Mistico». Non serve teologizzare troppo.
Basta stare cinque minuti davanti a padre Stefano per capire quanto la
sofferenza gli sia intima, quanto la desideri pur temendola, e quanto ne
offra i benefici e le benedizioni che ne discendono.Due anni fa l’ho incontrato al santuario dello Zuccarello di Nembro, vicino a Bergamo, per la Messa in ricordo di sua mamma. Era seduto in sacrestia, piegato sulla sedia, in difficoltà anche solo a dar retta a chi lo salutava. «Come sta padre Stefano?». Ha allargato le braccio per quanto poteva e ha sussurrato «Si sta così, sulla croce».
Con Mario Palmaro avevo appena scritto un libro su padre Pio, ma solo
davanti a quel suo figlio spirituale ho finalmente provato un briciolo
di vera compassione per la sofferenza che avevo descritto indegnamente
con le parole.Tre mesi fa l’ho rivisto, poco prima che scoppiasse la bomba del commissariamento. Era inquieto, ma più per le sorti della Chiesa che per quelle della sua fondazione. «Ormai,
ci può salvare solo il trionfo del Cuore Immacolato di Maria. Siamo nel
tempo che padre Pio diceva delle “quattro T”: tutte tenebre». «E che cosa possiamo fare, padre?». «Bisogna prepararsi, pregare e continuare la battaglia. E poi» ha aggiunto con il suo sorriso un po’ da vecchio e un po’ da bambino «ci sono le “quattro T” della luce: tutti Francescani dell’Immacolata».Eravamo a Sassoferrato, nel seminario dell’ordine. Una
costruzione enorme svuotata di vocazioni dai frati minori conventuali e
riempita dai francescani dell’Immacolata. Un edificio in questi frati che salutano chiunque con lo splendido «Ave Maria»
vivono fianco a fianco con madonna povertá. Nelle loro case, la povertà
è quella vera, non è quella esibita all’obiettivo del fotografo e
neanche quella predicata agli altri. È praticata in proprio e,
letteralmente, la si respira appena si varca la soglia di un qualsiasi
loro convento. Non nelle chiese, perché lì deve essere tutto il più
splendido possibile per il Signore, come voleva il padre Francesco. Ma
nelle loro case può abitarci solo chi decide e accetta di essere
veramente povero.La rinuncia a tutto, ma proprio tutto, quanto il mondo può
offrire di appena confortevole, attanaglia alla gola: ti soffoca o ti
santifica. «Se avessi voluto curarmi le unghie e avere l’acqua calda tutti i giorni» ha spiegato una suora di ventidue anni a mia moglie «sarei stata a casa mia».
Mia figlia Chiara, in un mese di missione non si è mai guardata allo
specchio, ne aveva solo uno piccolissimo per controllare se si era presa
le pulci. L’unico specchio consentito alle suore francescane
dell’Immacolata è il quadro della Madonna. Chi cerca l’oleografia e il
pittoresco e pensa ai conventi del turismo spirituale che va di moda
oggi, eviti con cura le case e i conventi dei francescani
dell’Immacolata. Scambierebbe per incuria e abbandono la santa
indifferenza che questi frati e queste suore nutrono per le cose del
mondo.Non capirebbe come uomini e donne del ventunesimo secolo
possano vivere in mezzo a quello che un qualsiasi cristiano perbene
chiamerebbe squallore. Perché è questa la cifra degli ambienti
in cui i francescani dell’Immacolata vivono, pregano e si santificano.
Dopo aver guardato la luce che brilla negli occhi di uno di questi frati
o di una di queste suore, guardate i piedi e osservate come sono
ridotti. Se gli occhi sono quelli chi scorge il Paradiso, i piedi sono
quelli di chi sta piantato nella miseria del mondo e l’abbraccia. A me è
capitato qualche tempo fa con padre Alessandro Apollonio, il braccio
destro di padre Stefano. Dopo un’ora trascorsa a passeggiare
sull’asfalto discutendo di massimi sistemi, mi è caduto l’occhio sulle
unghie dei suoi piedi, completamente coperte dagli ematomi dovuti al
gelo sopportato d’inverno. Allora ho guardato le mie scarpe e mi sono un
pò vergognato. Ma, soprattutto, ho avuto compassione del mio sguardo,
che non ha certo la letizia di quello di padre Alessandro.Sono solo dei piccoli fatti, cose da niente che però, a chi
abbia buoni occhi e occhi buoni, dicono ben più di tanti trattati di
sociologia. E pure più di tante visite apostoliche condotte per
posta elettronica inviando questionari da riempire e ricevere stando
nel proprio ufficio invece che andare sul posto di persona. Se il
visitatore che ha dato il via libera al commissariamento, come dice il
nome del suo ufficio, avesse visitato le case dei francescani invece che
affidarsi alle formidabili meraviglie informatiche, forse si sarebbe
reso conto che il rancore di certi frati contro il loro fondatore non
regge l’amore filiale che circonda la figura di padre Stefano. «Tieni, finisci tu il caffè»
ha detto il padre al giovane frate che ci aveva portato qualcosa da
bere quando l’ho incontrato due mesi fa. E, come faceva mio padre con me
quando ero bambino, come facevo io con i miei figli quando erano
piccoli e come mi piacerebbe fare ancora adesso che la più piccina va in
missione in Nigeria, gli ha passato la tazzina dalla quale aveva bevuto
lui.Cosa dire d’altro? Che poi, quel giorno, padre Stefano si è
alzato e se ne è andato verso la sua cella tenendo in mano tutti i libri
che gli avevo portato in regalo. Non lo avevo mai visto così
grande, così imponente. Forse sapeva già che sarebbe venuto il momento
della prova.
Fonte: http://www.corrispondenzaromana.it/francescani-dellimmacolata-anchio-li-conosco/
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